L'ORA DEL PASTO. LA MEMORIA DI GALEAZ

STORIA | 02/04/2019 | 07:41
di Marco Pastonesi

Il suo capolavoro fu il Lombardia del 1959. Sabato 18 ottobre, 240 km, da Milano a Milano, volatona al Ghisallo, un ordine d’arrivo che neanche ai Mondiali e una media, quasi 41 all’ora, da primato. Primo Van Looy, secondo Vannitsen, terzo Poblet, quarto Fantini e quinto lui, Federico Galeaz da Dambel, trentino della Val di Non, 23 anni, al secondo da professionista. E non è finita qui: perché, dietro, si classificarono sesto Darrigade e settimo Bruni.


In una terra di contadini e pastori, Galeaz era, più che un originale o eccezionale, un rivoluzionario e ribelle: “Quinta elementare, poi piccoli lavori in campagna e grande passione per la bicicletta. E quando c’era il Giro d’Italia, andavo in gita a Bolzano a veder passare i corridori, vicino alla stazione ferroviaria, su un ponte, in leggerissima salita, a un chilometro dall’arrivo. Le facce, sfigurate dalla fatica, poi le schiena, imbrattate dal fango. La prima volta, sei o sette fuggitivi. Kubler, Koblet, forse Astrua… e Coppi!”.


Vinse la grande passione per la bicicletta: “Nel 1951, a 15 anni, la prima gara paesana. Nel 1952, da esordiente, la prima vittoria. Poi allievo e dilettante. La Ceat di Torino mi propose di andare con loro, mi avrebbero pagato mangiare e dormire, ma era troppo lontano. Correvo per gioco, per amicizia, per divertimento. I miei genitori non erano d’accordo, temevano che cadessi e mi ferissi, ma continuai. La più bella vittoria nel Gran premio Pirelli, scappai prima del Ghisallo, più di 100 chilometri di fuga, arrivai da solo al Vigorelli. Era il 1957. Fu la mia ultima gara da dilettante. E pensare che l’anno prima feci terzo, terzo su tre, primo Ronchini e secondo Miserocchi, ma mi ero consumato tirando anche per gli altri”.

Primo contratto con la Chlorodont (“Il direttore sportivo era Rolly Marchi, anche lui trentino, e parlavamo in dialetto”), poi tre anni con la Torpado (“Lo stipendio era di 80 mila lire al mese per 10 mesi. Invitati in fabbrica, gli operai si lamentavano con noi perché lavoravano di più, si divertivano di meno e guadagnavano 28-30 mila lire al mese”), nel 1962 con la Molteni (“Ci dirigeva Giorgio Albani, un paio di volte andammo a trovare Fiorenzo Magni nella sua concessionaria a Monza, era severo e ruvido, a quel tempo aveva una sola figlia, diceva “io sono qui a lavorare come un somaro e magari un giorno ci sarà chi si godrà il frutto della mia fatica’”), strada facendo ha conosciuto Gino Bartali (Un tTrascinatore di folle, dovunque andasse era coperto di regali, caricava salami e bottiglie in macchina”) e corso con Coppi (“Nel 1958 anche al Giro, ma stava in gruppo, nel 1959 a poche corse e a molte riunioni, ma che rammarico non aver mai pensato di farmi fare una foto con lui”).

Due vittorie da raccontare: “La prima in una tappa del Giro di Sicilia del 1959, conquistai anche la maglia di leader, ma ero indipendente, alla corsa partecipavo grazie all’invito degli organizzatori, mangiare e dormire a loro carico, al resto ci pensavo io, assistenza in corsa zero, intanto cercavo squadra, mi accordai con quelli della Torpado, e alla fine vinse Loris Guernieri per un solo secondo. La seconda vittoria nel circuito di Lavis, che per un trentino era quasi come il Giro delle Fiandre per un fiammingo. Fuga a tre, sull’ultimo strappo, già in paese, Aldo Moser cedette, e allo sprint superai Graziano Battistini”. E poi piazzamenti: “Mi difendevo in salita e in volata, ma trovavo sempre qualcuno più veloce di me. Altrimenti aiutavo. Un bel colpo sarebbe stato il Giro del Lazio del 1959, valido come campionato italiano. Puntavamo tutto su Adriano Zamboni. Allo sprint fu dichiarato vincitore, poi riguardarono le fotografie, e a tavolino fu dichiarato vincitore Diego Ronchini. Che peccato: in caso di vittoria la Torpado aveva messo in palio 500 mila lire, che divise per tre sarebbero state quasi 170 mila lire per ciascuno, una mezza fortuna, invece niente”.

Alla fine del 1962, quando sopraggiunse la crisi delle case costruttrici di biciclette, Galeaz lasciò il ciclismo: “Tornai a lavorare nei campi, ma continuai a seguire le corse finché c’erano i miei amici corridori. E agli allievi e ai dilettanti che me lo chiedevano, regalai tutto: bici, maglie, pantaloncini, scarpette. Non mi è rimasto nulla”. Non è vero: gli è rimasta una memoria di ferro.
 


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