UN GIRO AL TOUR. IL FIGLIO D'ARTE

PROFESSIONISTI | 09/07/2017 | 07:42
E’ il primo Tour, ma non la prima volta. «Ci venivo da bambino, venivo a trovare il babbo con mia madre e i nostri amici. Due o tre giorni con la scusa della corsa, ma più che altro per stargli un po’ vicino». Fabio Mugnaini il ciclismo lo ha respirato in casa, dal giorno in cui è nato. Suo zio Marcello è stato un buon professionista. Suo padre Gabriele ha provato a seguire le orme del fratello maggiore ma poi, invece di essere uno dei tanti in gruppo, ha preferito diventare un numero uno. Una star dei massaggiatori. Anche a Fabio piace andare in bicicletta, ma non tutti sono nati per fare i corridori. A un certo punto ti accorgi che c’è gente che va più forte di te. Che c’è gente che fa meno fatica a soffrire. Tu invece puoi fare anche qualcos’altro.

(Ti accorgi che sono passati gli anni, troppi, quando al Tour trovi un ragazzo di cui hai sentito molto parlare e che credevi fosse ancora un bambino, o poco più. Di Fabio parlava il Mugna mentre riempiva le ammiraglie con i suoi sacchetti ordinati e impilati e tu stavi lì a tormentarlo per scroccargli un particolare, un dettaglio, qualcosa che potesse dirti della corsa molto più di un ordine di arrivo o di una classifica generale. Parlava di Fabio perché così sentiva meno la nostalgia di casa, o magari per cambiare discorso: tu volevi sapere se Cipollini se l’era presa per quella volata persa, e lui attaccava con il suo bimbo. Il Mugna era una fonte inesauribile di curiosità, ma dovevi avere pazienza: prima di dirti quello che interessava a te, lui ti faceva il lungo elenco delle cose che non andavano bene a lui. E in genere erano parecchie. Le maglie da lavare, i rifornimenti da preparare, «e uno vuole le barrette, l’altro la marmellata, uno il prosciutto crudo, quell’altro il prosciutto cotto», le borracce da riempire. Al Mugna non piaceva che la maggior parte del suo lavoro fosse diventata altro. Lui era un massaggiatore, e che massaggiatore. I muscoli di Mario Cipollini, per dire, li poteva toccare soltanto lui).
  
Fabio è nato a Firenze un paio di mesi prima che la Nazionale di Bearzot vincesse i Mondiali di calcio, in Spagna. «Beh, mi ricordo la vittoria del 2006, quella sì. Però posso dire che c’ero anche nell’82. Per un pelo». Il pallone però è poco più di un argomento di conversazione a tavola. La vita vera è il ciclismo, sempre quello. «Non seguo molto il calcio. Un po’ la Nazionale, quando ci sono le grandi partite. Il campionato ogni tanto, diciamo che tifo Fiorentina».

Fabio ha finito le superiori, è perito meccanico. E per tre anni abbondanti è andato a lavorare in fabbrica. «Vicino a casa, a Montemignaio, in provincia di Arezzo. Costruivano stampi e stampavano materiale plastico. Tutta un’altra cosa rispetto a quello che faccio adesso».
  
(Lo zio di Fabio si chiama Marcello. Lui ha fatto il corridore sul serio: classe 1940, vinse due tappe al Giro d’Italia e una al Tour. Era il Tour del ‘66, quello che vinse Aimar con Anquetil costretto a fargli da gregario, e Mugnaini fu primo nella tappa che andava da Pau a Luchon e arrivò a Parigi al quinto posto della classifica generale, primo degli italiani. L’anno dopo il Tour mise di fatto fine alla sua carriera: cadde, si ruppe tutto quello che poteva rompersi, provò a rimettersi in piedi ma dopo due anni complicati capì che era finita).
      
Fabio studia fisioterapia, fino al 2008. Poi comincia a lavorare nel ciclismo seguendo suo padre, il Mugna, in Liquigas. «Lavoravo a giornata. Ho seguito i dilettanti al Giro Bio, e ho lavorato un po’ con la Nazionale inglese di Sciandri. Con l’inglese mi difendo, col francese ho qualche problema in più. Ma al Tour si parlano tutte le lingue, alla fine ci si capisce. Comunque gli studi che ho fatto mi sono tornati utili. La biomeccanica, la fisica, le leve, i fulcri, quella roba lì». Liquigas, Sky, Lampre. Finché nel 2011 entra ufficialmente alla Liquigas, che poi diventa Cannondale. «Poi ho fatto due anni con Citracca, e adesso sono qui». Qui è la UAE di Beppe Saronni, e in questo primo Tour da massaggiatore Fabio si occupa dei muscoli di Ben Swift e di Manuele Mori, altro figlio d’arte toscano.

(Il Mugna dedicava come minimo un’ora al giorno ai muscoli di Mario Cipollini. E quando ti sdrai sul lettino dei massaggi sei nudo, in tutto i sensi. Il Mugna è il custode di tante storie, di mille segreti. Anni in giro per le corse, con la squadra e con la Nazionale. Con i Mondiali come ricordi più belli. Era la solita vita da zingaro, con Fabrizia che rimaneva a casa con il loro bambino a mandare avanti le cose).
  
«Papà adesso è in pensione. Fa passeggiate, si occupa dell’orto, va per funghi. Fa tutto quello che non ha fatto per una vita». Sarà contenta Fabrizia. «Mah, insomma. Si era abituata a non averlo per casa». Fabio ride, lui a casa ha Martina che lo aspetta ma adesso è più semplice sentirsi vicini. Basta Skype e anche il Tour de France non sembra così lungo. «No, corridori per casa non me ne ricordo. Mi ricordo che capitava spesso che il babbo ricevesse una telefonata e scappasse via, a prendersi cura di qualcuno dei suoi».

(E’ stato un corridore anche lui, il babbo, con una decina di vittorie fra i dilettanti, e un giorno indimenticabile a Greve in Chianti. Nel 1973 passò professionista, e quattro anni dopo arrivò secondo a Larciano. Smise poco più tardi, e cominciò a fare il massaggiatore per la Gis Gelati).
  
Fabio aveva vent’anni quando il Mugna vinse il campionato del mondo a Zolder. «Mi ricordo che passò l’estate a fare avanti e indietro con la casa di Cipollini». Noi sapevamo un’altra storia, Cipollini ci aveva detto che si era ritirato. «Credo che volesse soltanto rimanere tranquillo. C’era stata la delusione dell’esclusione dal Tour. Ma soprattutto c’era l’idea di preparare il Mondiale per vincerlo». Quindici anni più tardi, il Mugna va per funghi e suo figlio Fabio debutta al Tour. «C’è tanto da fare. Il rifornimento, la linea d’arrivo, i massaggi. Le giornate sono sempre lunghissime». Il Mugna cosa ti ha detto prima che partissi? «Mi ha detto solo: occhio, perché quello è il Tour». Tradotto? «Voleva dire che è la corsa più bella del mondo».

Alessandra Giardini
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