GIRO U23. PASTONESI RACCONTA I PROTAGONISTI: STEFANO ZANINI
DILETTANTI | 07/04/2017 | 07:43 Non era ancora Maciste. Non era ancora Zazà. E non era ancora l’Ercole di Varese. Ma aveva la sconfinata, incalcolabile, meravigliosa energia dei vent’anni. E andava forte dappertutto. Anche in salita, anche a cronometro, anche a tappe.
Non era ancora Maciste, non era ancora Zazà, e non era ancora l’Ercole di Varese, ma era Stefano Zanini, correva per la Liguria, vantava - senza vantarsene – una vittoria al Giro della Lunigiana, che sta agli juniores come il Giro Baby (e poi il GiroBio) ai dilettanti e come il Giro d’Italia al pianeta Terra. E così, a quel Giro d’Italia dei dilettanti, anno 1989, prese il via ricco di speranze, possibilità, opportunità, aperto al destino, alla sorte, all’avventura. E fu proprio un’avventura.
“La corsa si decideva sulle salite. Prima il tappone dolomitico con la scalata del Giau, sotto la neve, e l’arrivo a Corvara: mi difesi, a fatica. Poi il tappone alpino con il Tonale e il Gavia, dove anche difendermi sarebbe stato quasi impossibile. Ma minacciava brutto tempo, e dopo quello che era successo l’anno prima, al Giro d’Italia dei professionisti, in una bufera di ghiaccio, fu deciso di annullare la corsa in bici e farla in macchina. Fu un eccesso di prudenza: né pioggia né neve. Meglio per me: in maglia rosa era Stefano Cattai, per il Veneto, ma io lì. La penultima tappa, la Chiavari-Prato, sull’ultima salita della giornata, a San Mommè, non lunga ma con rampe impegnative, attaccò la Lombardia, Cattai perse la maglia rosa e io una cinquantina di secondi, però in classifica stavo ancora fra i primi dieci. Rimaneva l’ultima tappa, a cronometro, l’arrivo a Firenze. Me la giocai. E se la giocarono anche gli altri, soprattutto i sovietici: i primi sette o otto dell’ordine d’arrivo erano tutti dell’Est. Così primo Andrej Teterjuk, secondo io, terzo Cattai”.
Il primo Zanini ciclista fu il papà di Stefano: “Appassionatissimo, ma non aveva la possibilità di correre in bici, e così correva con la fantasia”. Il secondo fu lui: “Un’occasione attraverso i vicini di casa, la maglia del Gruppo sportivo Biancorossi di Gazzada, una bici presa in prestito dalla società. Avevo sette anni. La prima corsa a trecento metri da casa, un circuito, un chilometro a giro, tre giri, tre chilometri, il primo giro in fondo al gruppo, poi rimontai e vinsi con qualche metro di vantaggio. C’erano tutti: genitori, nonni, amici”. L’anno dopo la sua prima vera bici da corsa: “Se vinci cinque gare…, aveva promesso mio zio. Ne vinsi otto, per sicurezza. E mi arrivò una bici Ambrosini, un artigiano di Varese, rossa, ed eroica, con il cambio sul telaio, i fili fuori e i pedali con i puntapiedi. Ce l’ho ancora, qui, a casa”.
Zanini, al Giro d’Italia dei dilettanti, ci riprovò nel 1990: “Facevo sempre parte del Gruppo sportivo Cuoril, ma stavolta correvo per l’Emilia. Però non andai bene”. Nel 1991 passò tra i professionisti, con l’Italbonifica di Bruno Reverberi, e sarebbe stato Adriano Dezan a ribattezzarlo Maciste: “Diciassette anni da professionista, l’ultima corsa a quasi 39 anni, il Giro di Lombardia, la partenza a Varese, ai Giardini Estensi. Freddo, vento, grigio, autunno. Ci andai portando mio figlio seduto sul manubrio. Volevo celebrare la fine di un capitolo della mia vita”. Non immaginava che quel giorno se ne sarebbe aperto un altro: direttore sportivo. E Stefano Zanini è sempre di corsa alle corse.
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