BOMBINI. «IL CICLISMO DI OGGI MI PIACE. DEGLI ANNI NOVANTA NON E' TUTTO DA BUTTARE, ANZI...»

INTERVISTA | 03/01/2022 | 08:10
di Pier Augusto Stagi

Sogna ancora di poter un giorno tornare in gruppo con una squadra di alto livello, anche se Emanuele Bombini non si fa illusioni e sa perfettamente che questo resterà quasi certamente un sogno nel cassetto.


Lavora per la tappa conclusiva della Mille Miglia, sulle strade dell’Oltrepò Pavese, dove l’ex pro e manager vive da sempre: lui di Broni, oggi a Cigognola. Lavora anche per rimettere in calendario la gloriosa Freccia dei Vini, che Bombini vinse da promettentissimo dilettante (1979, ndr), ma che per questioni pandemiche non è più in calendario dal 2019, dopo 48 edizioni consecutive. La “Freccia” è nata nel 1972, la prima edizione venne vinta dal giovanissimo Giovanni Battaglin, mentre il laziale Andrea Cacciotti è l’ultimo nome del glorioso albo d’oro.


«Sto dando una mano alla “Orga Sport-Amici della Freccia” presieduta dall’ex giudice di gara Giacomo Chiesa – ci spiega Emanuele -, e mi auguro di cuore di poter riportare alla luce una delle classiche per dilettanti più belle e prestigiose», dice.

Emanuele, classe ’59, ha cominciato a correre nella leva giovanile a 11 anni con la maglia della Bronese, per la quale ha vinto la bellezza di 98 corse fino agli juniores. Da dilettante, prima con la Lema di Domenico Garbelli, poi con quella della System Holz e la Isal Tessari di Enrico Maggioni. Nei tre anni da dilettante una ventina di successi, prima di passare professionista nel 1981 con la maglia della Hooved Bottecchia (Malvor, Del Tongo, Vini Ricordi, Gewiss Bianchi, Diana Colnago e Gatorade le sue squadre, ndr): per lui, 12 vittorie in undici anni di professionismo, con due crono squadre al Giro d’Italia e la vittoria a Vittorio Veneto.

Emanuele, oggi cosa fai?
«Mi godo la pensione e seguo il ciclismo, che è comunque parte integrante della mia vita».

Ti fai vedere molto poco, come mai?
«Preferisco seguire le corse da casa, mi piace un sacco e non mi perdo un attimo. Ogni tanto vado alle corse, ma mi sento sempre fuori luogo, ho il timore di disturbare. Io sono lì da appassionato, ma c’è gente che è lì a lavorare…».

Ti piace il ciclismo di oggi?
«Moltissimo, come si fa a non amare questo preciso momento storico del ciclismo? Tadej Pogacar fa parte di quella categoria – pochissimi – che possiamo definire fenomeni. Poi ci sono alcuni fuoriclasse: Alaphilippe, Van Aert e Van der Poel».

E Primoz Roglic?
«È certamente un campione. Un grande campione».

Di corridori, davanti al tuo sguardo attento, ne sono passati tanti: chi ha reso di meno di quanto tu ti aspettavi?
«Quello che più mi ha deluso è Giuseppe Palumbo, due volte campione del mondo degli juniores, che io volli alla Riso Scotti. Non so perché non è riuscito ad emergere, ma è chiaramente una delle mie grandi delusioni. Da osservatore esterno, molto esterno, ci metto anche Fabio Aru, che mi piaceva tantissimo. Non so come mai non ha saputo confermare quanto di buono aveva fatto vedere, ma è chiaramente un’incompiuta».

Speri sempre di fare una squadra di World Tour?
«È un pensiero che è lì, anche se non è un’ossessione. Il momento è difficile per tutti e fare una squadra di livello mondiale è davvero utopia. Guardate, chi ci riesce? La maggior parte sono sponsor nazionali: vorrà dire qualcosa…».

Vai in bicicletta?
«Senza tirarmi il collo. Ogni tanto con quella muscolare, ma adesso ne ho anche una assistita».

C’è qualcosa che ti ha ferito?
«Più di qualcosa, ma direi che mi è spiaciuto tantissimo finire nel calderone. Il ciclismo degli Anni Novanta non è stato semplice per nessuno e ognuno si porta sulle proprie spalle il proprio fardello di colpe. Però mi spiace che le tante cose belle e buone che sono state fatte non siano state riconosciute e ricordate. È tutto da gettare, ma non è così. La Gewiss Bianchi, per esempio, è stata la prima vera squadra che qualcosa di diverso ha portato nel nostro sport. Una struttura di assoluto livello, che ha aperto la strada alle squadre di World Tour di oggi».

Giovani corridori che emergono sempre di più a livello mondiale, il nostro ciclismo è ancora ancorato a vecchi stilemi, con blocchi e limitazioni: è giusto?
«Io quando da juniores sono passato dalla Bronese alla Lema ero un ragazzino sperduto e sprovveduto, oggi i ragazzini sono molto più attrezzati e pronti, su questo non ci sono dubbi. Sono per la tutela dei ragazzi, ma il ciclismo è cambiato. E non da oggi…».

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