MOSCON. «Prima Wiggins, poi il trattore»

DILETTANTI | 06/04/2015 | 07:56
Iniziamo un viaggio alla scoperta degli Under 23 più interessanti del panorama nazionale. Partiamo con Gianni Mo­scon, trentino classe ’94, che ricorderete tutti per il salto che ci ha fatto fare sul divano cadendo nel finale del Cam­pionato del Mondo di Ponferrada quan­do era all’attacco e aveva buone possibilità di giocarsi il titolo iridato. La storia del passista scalatore della Zalf Euromobil Désirée Fior non può essere racchiusa solo in quell’episodio, visto che è molto più ricca (scoprirete un ra­gaz­zo dai mille interessi, leggere per cre­dere) e soprattutto in gran parte ancora da scrivere.

Iniziamo dalle presentazioni.
«Sono nato a Trento il 20 aprile 1994 e vivo a Livo (TN) con la mia famiglia: pa­pà Bruno e mamma Luisa e le mie tre sorelle maggiori Valentina, Fran­cesca e Federica, rispettivamente di 35, 32 e 26 anni. Viviamo nella Val di Non, terra di mele e ciclismo. L’agricol­tura è la mia seconda passione, papà ha un’azienda agricola, quando sono a casa e posso cerco di rendermi utile. Pre­diligo i lavori che si possono fare con il trattore per non stancarmi troppo, così il ciclismo non ne risente».

Tutta la famiglia è impegnata nei campi?
«No, mamma dà una mano in azienda e si occupa principalmente della casa men­tre le mie sorelle si dedicano a tutt’altro. La più grande è avvocato e insegna Giuri­sprudenza all’Università di Trento, la seconda lavora per uno studio legale di Bolzano (quello che ha difeso Alex Schwazer, ndr) e la terza fa la segretaria per un notaio. Fino a quando ho militato nella categoria juniores avevo più tempo per lavorare, ora ne ho meno perché sono spesso via, ma curare i meli mi piace molto. Mi sono diplomato perito agrario anche per questo».

Come andavi a scuola?
«Bene, mi sono diplomato con il massimo dei voti e, visto che tutti mi dicevano che sarebbe stato uno spreco per me dedicarmi esclusivamente allo sport, mi sono sentito in dovere di proseguire gli studi. Sono iscritto a Ingegneria Ge­stio­nale, è molto difficile conciliare lo studio con la bici, soprattutto perché si tratta di una facoltà impegnativa, già un ragazzo che non fa altro che studiare fa fatica a rimanere in pari con gli esami... Io sono un po’ indietro ma d’altronde, anche se d’inverno cerco di fare il grosso, nel secondo semestre con le tante gare del periodo estivo è impossibile da­re tutti gli esami in programma».

Caratterialmente come ti definiresti?
«Un ragazzo schietto. Se penso una cosa la dico o la faccio capire. Dopo una sfuriata però non porto rancore, se mi arrabbio, poi mi passa subito. Inol­tre sono davvero pignolo, meticoloso, insomma mi piace fare le cose fatte be­ne. A volte sono fin troppo riflessivo. Anche con la bici sono un precisino, ma non dal punto di vista tecnico. Non sento il millimetro di differenza, ma se mi impunto su qualcosa, è difficile farmi cambiare idea. Se per esempio ho un certo programma di allenamento e non riesco a svolgerlo, non sono tranquillo; se un giorno mi sembra di andare meno forte del solito torno a casa in­soddisfatto e fino all’allenamento del giorno successivo, in cui mi rendo conto che la condizione è buona, non sono contento. Sono uno che cerca sem­pre conferme, sul dato strappetto faccio sempre la volatina per capire a che punto sono».

I tuoi numeri?
«Sono alto 1,80 mt per 69 chili. Cerco di ispirarmi ai corridori già affermati con le mie caratteristiche fisiche, penso a grandi campioni del calibro di Froo­me e Wiggins. Soprattutto quest’ultimo mi piace perché è un personaggio molto interessante. Idoli? Da bambino in Trentino non si poteva tifare altro che Simoni, oggi ammiro Contador e molti altri ma su tutti se devo fare un nome dico Bradley Wiggins».

Quando hai iniziato a correre?
«Da G2, a 7 anni. Papà ha sempre avuto la passione del ciclismo anche se non l’ha mai praticato. Segue le corse, non se n’è mai persa una vicino casa, ogni volta che passava il Giro dalle nostre parti era una festa. Un giorno a una fiera dell’agricoltura trovai per caso uno stand di quella che sarebbe diventata la mia prima squadra, all’epoca si chiavama UC Dalla Torre, oggi UC Rallo, provai la gimkana che avevano allestito per l’occasione e da lì è iniziata la mia av­ventura nel mondo delle due ruote».

Ti ricordi la tua prima bici?
«Era azzurra con il nastro rosso. Prima di praticare ciclismo, come tanti bambini nella mia zona, avevo frequentato dei corsi di sci da discesa. Sulla neve ero davvero scarso, ricordo le figure barbine raccolte per due anni alle garette di fine corso tra tutti i bimbi partecipanti. Arrivavo sempre ultimo, con distacchi abissali (ride, ndr). Quando le mie so­relle vennero a vedermi alla prima corsa in bici davano per scontato avrei fatto una magra figura invece le prime tre corsi le vinsi, una dietro l’altra. Ri­ma­se­ro a bocca aperta».

Con chi ti alleni di solito?
«L’anno scorso mi allenavo spesso con Gianluca Leonardi, che correva per l’Area Zero, ma ora che lui ha smesso di gareggiare esco quasi sempre da solo. Quando siamo a casa entrambi, ma ac­cade raramente, mi alleno con Andrea Piechele della Bardiani. Ad ogni modo passo molto tempo a Ca­stelfranco Ve­neto in ritiro con la squadra».

Cosa ti piace del ciclismo?
«Che non ci sono chiacchiere che tengano: se hai gambe, hai la possibilità di vincere, altrimenti resti indietro. È uno sport vero, in cui conta la prestazione e non ci si può nascondere».

Cosa cambieresti invece?
«Il modello del dilettantantismo italiano, così com’è non funziona proprio. Siamo arrivati a un punto per cui all’estero non siamo considerati non perché ci manchino le qualità, ma perché soffriamo l’assenza di attività internazionale. Nelle corse che contano non riusciamo ad essere competitivi perché siamo abituati a cimentarci nelle nostre solite garette. Non dico che i circuiti siano da bandire, anzi, ma dovremmo poter correre gare più importanti per conoscere i nostri avversari e confrontarci con loro. Ora come ora certi li vedi solo al mondiale, se sei fortunato ad essere convocato! L’iniziativa di Cas­sani e Amadori di far correre più spesso la nazionale mista nelle gare professionistiche ritengo sia già un bel passo avanti in questo senso. Confrontarci con i big dà a noi giovani l’idea del ritmo che troveremo quando passeremo nella massima categoria e ci insegna tanto».

Come trascorri il tempo libero?
«Suono la fisarmonica. Nelle zone di montagna non è uno strumento così ra­ro, nelle sagre non manca mai. Io ho ini­ziato a suonarla perché ho frequentato un corso in paese, non faccio parte di nessuna banda, ma mi piace suonarla anche da solo».

Sei fidanzato?
«Si, da 5 mesi con una ragazza che co­noscete perché va in bici: Sofia Ber­tizzolo. Il mondiale nel quale lei conquistò la medaglia d’argento tra le ju­niores è stato galeotto? No, ci siamo messi assieme solo dopo».

Il ricordo più bello che hai legato alla bici?
«La vittoria al Piccolo Giro di Lombar­dia dell’anno scorso, una bella soddisfazione dopo la brutta caduta del mon­­diale. Ponferrada per me è un ca­pitolo chiuso, anche se in tanti me la ricordano spesso. Quando sento dire “se non fossi caduto, avresti vinto” o supposizioni di questo tipo ormai non ci faccio più caso, mi entrano da un orecchio e mi escono dall’altro. È andata così, ci saranno altre occasioni».

Cosa ti aspetti da questa stagione?

«Di firmare quanto prima un contratto per passare professionista. Sono in contatto con al­cune squadre, quelle con cui avevo parlato già a fine 2014 ma non posso dire di più al mo­mento. Il sogno è essere chiamato da un team World Tour. Per squa­dre co­me la Sky, la Saxo Bank e la BMC non ci penserei due volte, cor­rerei an­che gra­tis. Scher­zi a par­te, in at­tesa del pas­sag­gio voglio far be­ne in ma­glia Zalf, puntando alle cor­­se più im­portanti dell’anno. Al mio ter­zo an­no in questo team vorrei centrare al­meno un successo in­ter­nazio­na­le. Se ar­ri­vasse tra Pa­squa e Pa­squet­ta sa­reb­be un bel colpaccio».

Sogno nel cas­setto?
«Poter­mi gio­ca­re un gior­no la classifica di un gran­de gi­ro, vedremo se le mie doti me lo permetteranno».

Come ti im­ma­gini da gran­de?
«In bici e, una volta ap­pesa al chiodo, sul trattore».

Giulia De Maio, da tuttoBICI di marzo
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