BOONEN. «Datemi la salute, al resto penso io»

PROFESSIONISTI | 08/03/2014 | 08:29
Tom Boonen è tornato e tutti lo vogliono. In qualsiasi trasmissione, per esprimere un giudizio su qualsiasi argomento. L’abbiamo incontrato in Ar­gen­tina, al suo rientro alle corse, dove era seguito 24 ore su 24 da una troupe del­la tv belga, inviata dall’altra parte del mondo con una spesa non indifferente ma sensata, perché se in Belgio si parla di Tornado Tom il picco di audience è garantito. Al Tour de San Luis abbiamo avuto modo di fare con lui una lun­ga chiacchierata - «una di quelle che concediamo tre volte all’anno» ci spiega Alessandro Tegner, responsabile della comunicazione dell’Omega Pharma Quick Step - durante la quale abbiamo ripercorso la sua carriera fatta di alti e bassi, ma soprattutto guardato al prossimo futuro. Boonen con la di­sponibilità del fuoriclasse ci ha guidato alla scoperta del ciclismo in Belgio, delle “sue” Classiche e dei suoi sogni. Il 2014, oltre ad essere l’anno del suo ritorno, potrà essere ricordato anche come l’anno dei record se vincesse il suo quarto Giro delle Fiandre e la sua quinta Parigi-Roubaix, diventando il corridore più vincente della storia della Campagna del Nord.

Partiamo da un riassunto del tuo 2013.
«L’anno scorso per me è stato un vero e proprio incubo. Avevo trascorso un buon inverno finché un virus intestinale mi ha messo ko. Ho dovuto trascorrere otto giorni in ospedale e altrettanti fermo prima di poter riprendere ad an­dare in bici. Tra me e me pensavo: “Il peggio è passato. Se riparto ora, posso ancora farcela a prepararmi per le Clas­siche”, ma dopo il secondo ritiro con la squadra e la presentazione, mi sono ammalato nuovamente. In una stu­pida caduta in mtb mi ero procurato un piccolo taglio al gomito che si stava in­fettando. Era un sabato sera quando ha iniziato a spurgare, la mattina successiva ho chiamato il medico che mi ha det­to di correre subito in ospedale do­ve mi hanno operato il giorno stesso. Sono stato fortunato perché conosco bene questo specialista, se avessi aspettato il lunedì per andare al pronto soccorso, come avrebbe fatto una persona normale avrei perso il braccio perché l’infezione era davvero profonda. Dopo l’intervento, ho trascorso altri 10 giorni ricoverato e per altri 40 ho dovuto prendere antibiotici. Per riprendermi del tutto, quindi, ho impiegato due me­si e mez­zo. Tornato alle corse, dopo po­co ho dovuto chiudere anticipatamente la mia stagione a causa di una ciste al pe­rineo. Un disastro».

Credi nella buona e nella cattiva sorte?
«In realtà no. Per meritarmi un’annata così sfortunata non ho fatto nulla di ma­le e la stagione precedente era stata una favola... Dal 2002, quando passai professionista, ho vinto 126 corse e vissuto momenti magici ed altri drammatici: credo semplicemente che le cose accadano. Ad ogni modo spero che il 2014 sia più fortunato».

Per ripetere la tua stagione d’oro di due anni fa.
«L’idea è quella, ma so che è molto difficile. La condizione è buona, ho ri­spet­tato la tabella di marcia che mi ero fissato, come si dice “ho fatto i com­piti”, ma quando si è in corsa il gioco non è solo nelle tue mani. Puoi so­lo da­re il massimo e vedere come andrà a finire».

Come ti sei preparato quest’inverno?
«Ho fatto molto fitness. Sono stato in America in vacanza e a Las Vegas per la fiera, ma prima di partire avevo già programmato tutto, così che al mio ri­torno ho potuto iniziare la preparazione con il mio personal trainer. Per tre mesi sono andato in palestra quattro volte a settimana per tre ore al giorno. Ho svolto tutti quei lavori di forza che non si ha mai il tempo di fare durante una stagione normale, nella quale non si può dedicare più di un mese alla preparazione invernale vera e propria. Ho effettuato due cicli di lavoro di sei settimane, concentrandomi molto a livello muscolare. Mi sento rafforzato. Peso quattro chili in più dell’anno scorso, an­che se tutti dicono che mi trovano ti­ratissimo (statuarie le sue misure: 192 cm per 85 kg, ndr). Da quando ho ri­preso ad allenarmi all’inizio di settembre, ho macinato tanti chilometri e ora ho fame di vittoria. Non correvo dall’inizio di luglio quindi il mio inverno è stato davvero lungo. Penso che tutto questo lavoro pagherà, di certo mi ha tenuto molto impegnato e già questo è un bene».

In Belgio sei famosissimo. Come riesci a conciliare la popolarità con la serenità necessaria per raggiungere i risultati?
«In realtà non è così difficile, ormai so­no alla mia tredicesima stagione da pro­fessionista e sono abituato alla pres­sione mediatica. Ovvia­men­te ci so­no periodi buoni e meno buoni, mo­menti in cui tutti ti applaudono e altri in cui vieni criticato, ma fa parte del gioco. L’importante è che non si ecceda mai. Non mi faccio influenzare da ciò che scrivono i giornalisti e a casa ho im­parato ad essere riservato, quindi sono molto tranquilo. Non devo guardarmi le spalle dai paparazzi in ogni momento, se è quello che volete sapere».

Il tuo programma cosa prevede?
«Ora Parigi-Nizza e di tutte le Classiche. Gran­di Giri? Decideremo dopo la pri­ma parte di stagione, mi piacerebbe essere al via del Tour de Fran­ce visto che l’anno scorso non ho potuto esserci. Abbiamo uno squadrone e con Mark (Cavendish, ndr) formiamo una bella coppia, vedremo... La Gran­de Boucle è senz’altro una corsa adatta a corridori come me perché non è troppo dura, intendo dire che in ge­ne­re non prevede salite micidiali. Negli anni che mi rimangono di carriera vorrei essere al via del Tour almeno un altro paio di volte».

Non sei il tipico corridore ossessionato dal­la Grande Boucle.
«Forse perché ho vinto tutto quello che volevo quasi con facilità quando ero un ragazzino. Ho vinto la mia prima tappa al Tour a 23 anni, ho alzato le braccia al cielo sui Champs Élysées alla stessa età, a 26 ero già a quota sei tappe e sfoggiavo in bacheca la maglia verde. Il mio unico problema è la salute, se sto bene per me non è così faticoso arrivare a Parigi, ma in carriera durante quelle tre settimane di gara mi sono quasi sempre ammalato. Sai, sono molto grande e ho bisogno di bere tanto, più de­gli altri. Il mio stomaco spesso ne risente, così tra influenze e cadute ne ho portati a termine solo due. Legati a questa corsa ho ricordi molto belli co­me molto brutti, tanto che un paio di anni fa ero così scoraggiato che mi so­no detto: “non più ha senso che ci ritorni”. Ora le cose sono cambiate mol­to in squadra e se ci tornerò è perché ho una grande motivazione».

Quali uomini porterai con te alle Classiche?
«Abbiamo un gruppo consolidato di 10-12 corridori, rispetto all’anno scorso manca solo Chavanel. Ci saranno di sicuro Stiby (Zdenek Stybar), Stijn Vandenbergh, Guillame Van Keirs­bulck, Nikolas Maes, Matteo Trentin che è uno dei ragazzi più talentuosi per lavorare sulle strade del nord, Niki Terpstra, Gert Steegmans e gli altri che bene o male faranno tutte le classiche con me, a parte uno o due cambi che adotteremo per far salvare la gamba ad alcuni per determinati appuntamenti».

Come presenteresti il Giro delle Fiandre a una persona che non ne ha mai sentito parlare?
«Beh, se una persona non ha idea di cosa sia, può solo andarlo a ve­dere per capire di che si tratta. Oltre al percorso, che negli anni ha subìto dei cambiamenti, è incredibile l’atmosfera che c’è intorno a questa corsa. Una settimana prima i media sportivi non parlano d’altro, i tifosi da tutto il mondo riempiono le strade e i corridori affilano le lame. Per­so­nal­mente prima di un appuntamento così im­portante cerco di sminuirlo, o me­glio cerco di pensare che sia una corsa come un’altra per non farmi schiacciare dalla grandezza dell’evento. Solo alla fine della giornata mi tolgo i paraocchi. Questo mi aiuta tanto a concentrarmi sulla gara e a non farmi di­strarre da tutto quello che la circonda. La sera prima della gara, co­munque, di solito sono abbastanza tranquillo e dor­mo sereno, non sono uno che sente troppo la corsa e si agita, ma è chiaro che non manca un po’ di salutare tensione».

I rivali da tenere d’occhio?
«Sono i soliti degli ultimi anni, c’è qual­che giovane come Sagan che si ag­giunge ai favoriti, ma trattandosi di una corsa così lunga e dura, non ci sono mai troppe sorprese. Non può spuntare un nome sconosciuto dal nul­la e vincere il Fiandre. Fabian Cancel­lara sarà come sempre temibile, Peter sarà un bel rivale anche se penso possa ambire più alla Roubaix che al Fiandre. Se­con­do me la Parigi-Roubaix è in qualche modo più aperta e alla sua portata. Se vai forte, controlli i tuoi rivali, se non hai problemi come cadute o guai meccanici e azzecchi il momento giusto puoi spuntarla anche senza troppa esperienza».

Corridori come Nibali e Valverde saranno al via del Fiandre: sei preoccupato?
«Sinceramente no, ma penso sia un be­ne per il ciclismo che uomini importanti per le corse a tappe si mettano in gio­co anche nelle prove di un giorno. Sa­ran­no loro i primi ad essere sorpresi dal­la durezza di questa corsa, dalla lotta per le posizioni prima che inizino i muri, da quanto bisogna limare tutto il giorno. Ogni istante può essere decisivo, è questo che ti logora mentalmente. Alla sera sei morto per questa continua e snervante sfida per le posizioni. Al termine della gara io torno sempre a casa da solo in macchina perché voglio davvero riprendermi dallo stress, dalle urla del pubblico, dalle voci alla radio e sono così stanco che neanche accendo la musica. Mi metto al volante e tiro un sospiro: “Aaaah finalmente!”. La notte dopo non dormo mai perché con la testa ripercorro ogni istante della cor­sa, come al rallentatore, per capire cosa ho fatto bene e cosa ho sbagliato».

È la stessa sensazione che molti corridori dicono di provare nelle docce della Rou­baix.
«Può darsi, in realtà io li mi sono lavato una volta sola. È un posto magico ed è bello sapere che c’è impresso il mio nome più di una volta, ma di solito per comodità mi cambio nel bus della squadra».

Del percorso del Campionato del Mondo di Ponferrada che cosa pensi?
«Ho visto solo dei video al riguardo e se non sbaglio recentemente sono stati apportati alcuni cambiamenti che lo hanno reso meno duro rispetto al progetto iniziale. Comunque io avevo già in mente di andarci e di prepararmi al meglio per questo obiettivo perché, se ho davanti a me ancora 3 o 4 anni di carriera, vorrei riprovare l’emozione di indossare la maglia iridata (ha vinto la prova in linea a Madrid nel 2005 e la cronosquadre con l’Omega Quick Step a Valkenburg nel 2012, ndr). Non pen­so di correre la Vuelta a España in ottica mondiale perché dopo le Classiche e il Tour sarebbe troppo, ma mai dire mai. A fine aprile programmeremo la seconda parte di stagione, per ora vo­glio solo focalizzarmi sulla pri­ma».

Grazie a chi hai scoperto l’amore per il ciclismo?
«La mia è una storia un po’ strana perché anche se mio padre André era un corridore professionista (oggi agente della Ridley, ndr) e in Belgio il ciclismo è uno sport popolarissimo, da ragazzino non lo seguivo assolutamente. Avevo altri interessi e trascorrevo tutto il tempo giocando con i miei amici nel­le foreste vicino casa. Un giorno proprio questi amici mi dissero di andare con loro ad una corsa promozionale sul circuito di Zolder, lo stesso dei mondiali del 2002. Avevo 12 anni e non avevo mai usato una bici da strada, risposi “perché no?”. Mi dissi: “Per una volta posso provare...” Vinsi, nettamente. Cavolo! Ero un bambino quindi puoi immaginare l’emozione di arrivare primo e capire di essere bravo in qualcosa. Da quel giorno ho iniziato pian piano a pedalare finché a 13 anni mi sono effettivamente iscritto a un team, da lì in poi ho vinto un po’ di corse e mi sono appassionato sempre più a questo sport. Anche mio fratello minore Sven ha corso nelle categorie giovanili, ma a un certo punto ha dovuto smettere per problemi alla schiena. Il ciclismo ha contagiato tutti in casa, perfino mamma Agnes che oggi è in pensione, ma all’epoca lavorava alla reception di un hotel».

Ma sognavi di diventare un ciclista?
«Solo da junior, quando vestivo la ma­glia della Kortrijk Groeninge Spurters diretta da Dirk Demol e sono entrato nel giro della nazionale, ho iniziato a concentrarmi davvero sul ciclismo e a seguire il mondo del professionismo. Non sono nato sognando una carriera in questo ambiente, ci sono cresciuto dentro e si è realizzata in modo naturale. Sui muri della mia cameretta avevo appesi i poster dei campioni dell’epoca, su tutti adoravo Miguel Indurain».

E oggi?
«Oggi chiedo solo di essere in buona salute perché ho imparato che senza quella non si può fare molto, tutto il resto con impegno e un po’ di fortuna arriva».

Cosa ti ha dato il ciclismo?
«È un’ottima scuola di vita, ti insegna ad apprezzare quello che hai perché ti costringe a lavorare duramente per raggiungere quello che vuoi e a rialzarti quando cadi. Comporta molta fatica, ma è il sudore a dare valore al traguardo raggiunto. Le cose che si possono ottenere facilmente valgono meno di quelle che ci costano fatica. Per esempio, io quest’inverno ho lavorato quattro mesi e ora per i prossimi due di gare farò altrettanto in vista delle classiche. In totale fanno sei mesi di fatiche per (forse) un giorno di gloria o poco più. È uno stile di vita duro ma che, una volta assimilato, ti permette di superare qualsiasi ostacolo».

Come sei riuscito a risollevarti dai mo­men­ti difficili della tua vita, quali la d­i­pendenza dalla cocaina?
«Ne sono uscito grazie a me stesso, è una questione molto personale, penso che se vuoi una cosa davvero trovi la forza per affrontarla. Devo ringraziare ovviamente la mia famiglia e chi mi è stato vicino nel periodo più buio della mia vita, tra cui anche la squadra (il 9 maggio 2009, dopo essere risultato po­sitivo alla cocaina per la seconda volta ad un test antidoping, venne sospeso dalla Quick Step che qualche giorno dopo annunciò, con un comunicato firmato dallo sponsor e dal direttore ge­ne­rale Patrick Lefevere, l’intenzione di proseguire il rapporto con il ciclista, al­la condizione che Boonen si sottoponesse ad un programma di disintossicazione dalla cocaina, ndr), ma è principalmente grazie a me stesso se ho ab­bandonato uno stile di vita autodistruttivo. In certi casi nessuno può aiutarti davvero, se non tu stesso».

Nel tempo libero cosa ti piace fare?
«Da due anni sono ritornato a vivere a Mol, la città in cui sono nato il 15 ottobre del 1980. Il poco tempo libero che ho lo trascorro con Lore, la mia compagna, e gli amici di sempre. Sono ap­passionato di motori, quindi ogni tanto mi tolgo lo sfizio di andare in pista e fare qualche garetta in macchina (dopo il titolo mondiale si è comprato una Corvette, l’ultimo acquisto è una Fer­rari, ndr), dei giri tranquilli senza fare follie. Ascolto molta musica e amo gli animali, in particolare gli asini. Ne ho tre, si chiamano Kamiel, Rasta e Basta. Visto che sono sempre in giro, li ho affidati a una zia che si prende cura di loro».

Il tuo piatto preferito?
«Vado a periodi, mi piace di tutto, ma posso cambiare idea dalla mattina alla sera. Da bere, una bella birra belga fredda oppure un buon bicchiere di vino».

Quanti tatuaggi hai?
«Ne ho due: uno grande sul braccio destro e uno piccolo in un’altra parte del corpo. Il significato? È top secret, diciamo che sono dei bei disegni...».

Sei un ragazzo che piace molto: quanto è difficile gestire le fans?
«Non molto, vale lo stesso discorso fat­to per i giornalisti. Anche con loro or­mai so come comportarmi, basta non permettere quello che non si vuole e decidere chiaramente fin dove possono arrivare».

Come ti piacerebbe essere ricordato dal ciclismo?
«Non ci ho ancora pensato. Sto bene fisicamente e ho ancora tanta voglia di correre e di fare fatica. Fino a quando avrò questa motivazione non vedo perché dovrei smettere o pensare a quando appenderò la bici al chiodo. Il giorno che mi sveglierò senza la voglia di salire in bici e uscire in allenamento, vorrà dire che sarà il momento di smettere e di decidere cosa fare da grande».

Tra Fiandre e Roubaix cosa scegli?
«Non posso scegliere, è come se mi chiedessi: “vuoi più bene a tua madre o a tuo padre?”. Mi sto preparando al meglio per andare forte in entrambe le corse. Se dovessi proprio scegliere per quest’anno opterei per la mia quinta Roibaux perché è ciò che tutti mi chiedono. Mi fa sorridere però chi ipotizza che sarebbe una vittoria più importante delle altre perché per me ogni vittoria è unica e di valore. Dalla prima all’ultima».

di Giulia De Maio, da tuttoBICI di febbraio
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