Quintana, il campione nato dalla "malattia dei defunti"

PROFESSIONISTI | 01/09/2013 | 08:38
«Ho rischiato di morire poco dopo es­sere venuto alla luce». Ve lo immaginate? Che cosa avrebbe perso il ciclismo...
«Per la “malattia dei defunti”- racconta Nairo Quintana -. Quando qualcuno muore bisogna allontanare i bambini, se no rischiano di essere contagiati, co­me è successo a me. Dopo che è mancato un nostro vicino di casa, uno dei suoi parenti è andato al negozio dei miei genitori per comprare da mangiare. Ha toccato mia madre, che era in procinto di partorire. Nacqui e mi am­malai».
Ha la pelle nera, Nairo Quintana, ruvida e dura: così è sopravvissuto. Per questo e perché doveva aiutare i suoi genitori a vendere le verdure. In settimana nel negozio di Combita, il sabato e la domenica nei villaggi vicini. Ha fatto di tutto per mandare avanti la famiglia, per sfamare le sette bocche di casa: due fratelli, due sorelle e i genitori. Compreso guidare il taxi di notte per mettere in tasca qualche soldo extra.
La bici... chi ci avrebbe mai pensato. Toccò a Nairo, per forza. I suoi genitori erano scesi ripetutamente ad Arca­bu­co per chiedere che fossero loro abbassate le tasse scolastiche. Non riuscivano a sostenere le spese per l’educazione dei figli, figuriamoci il trasporto. Costretti a limitare i costi, hanno ri­spolverato una vecchia bicicletta di proprietà del padre, comprata tempo ad­dietro per andare a vedere le mucche del Potrero. Quattro tubi, un ferro vecchio «che pesava troppo» per lui. Toc­cò a Nairo perché «le femmine dovevano andare in autobus e i miei fratelli erano più piccoli di me». Toccò a Nairo e fu la sua fortuna. Grazie a quella vecchia bici ha vinto Nairo, hanno vinto la sua famiglia e il ciclismo, che il mese scorso è stato sedotto dai suoi attacchi sui Pirenei.
«Mio padre Luis rimase invalido» - quanto è duro il lavoro nei campi per la schiena e il corpo - «anche questo triste episodio mi ha insegnato molto. A casa ab­biamo sempre vissuto con poco, ma di sicuro se avessi avuto tutto ora non sarei qui».
Proprio in sella a quella vecchia bici, ogni mattina Nairo doveva andare a scuola: 16 chilometri che, se al mattino erano in discesa, al po­meriggio erano da percorrere in salita, una scalata che le macchine facevano fa­tica ad affrontare in terza, in al­cuni tratti ob­bligate a schiacciare la frizione e a scalare alla seconda. Lui doveva affrontarla con quella sua vecchia mountain bike e con lo zaino in spalla. Un pomeriggio in­contrò strada facendo un gruppo di professionisti che si stavano allenando, si unì a loro per risalire verso casa. So­lo un paio di quella dozzina di ragazzi riuscirono a tenere il suo passo.
Così Nairo ha cominciato ad essere ciclista. Quando arrivò il momento di iniziare il liceo, i suoi genitori non avevano la disponibilità economica per permettergli di proseguire gli studi. La sua unica possibilità, per costruirsi un futuro, era arruolarsi nell’esercito ed ottenere così uno stipendio assicurato. Nai­ro però si era innamorato della bicicletta a tal punto che trovò il coraggio di chiedere al padre di comprargliene una migliore per provare a fare il ciclista. Fu ascoltato e ne ricevette una che assomigliava vagamente ad una bici da corsa: era in acciaio e aveva il cambio sul telaio. Pesava metà della sua vecchia mtb, così fu facile staccare tutti in montagna, proprio come riesce a fare ancora oggi. Papà Luis, nel frattempo, è riuscito ad andare in pensione, mentre vede volare suo figlio sulle montagne, lasciando un segno profondo nel suo primo Tour de France.
Nairo è un ragazzo che entra nel cuore degli appassionati di ciclismo, attraverso cose semplici, come queste, per esempio.
Finita la tappa, terminato l’inferno, a più di 2.000 metri di altezza, Nairo Quintana si affaccia al balcone con vi­sta sul Mont Ventoux, dai piedi dell’altissima antenna osserva, ma non vede perché la sua mente è vuota come le sue piccole gambe, non è in grado di elaborare le immagini, appena intravede il paesaggio che si può ammirare da quassù, da questo tetto dal quale si domina tutta la Provenza. Nairo si ap­poggia a una transenna e tuffa la testa tra le braccia, come a cercare una sacca d’aria che non c’è, per respirare. Un piede in alto, una bottiglia d’acqua in mano, così rimane per alcuni secondi, nel silenzio più assoluto. Durante il recupero alza lo sguardo e comincia a vedere, ora sì, afferra con una mano il piede e si allunga. “Un giorno Nairo conquisterai il Mont Ventoux”, gli dicono. Il suo sguardo plana sulle colline sottostanti finché i suoi occhi incrociano l’inconfondibile massa di cemento che domina la montagna, alta e ripida, quindi ricorda Chris Froome e quanto l’ha fatto soffrire nell’ultima ora di scalata fin lassù. «Certo, a me piacerebbe vincere su questa salita mitica, ma credo che lui sarà della partita nelle prossime stagioni».
Quando Nairo Quintana taglia il traguardo del Mont Ventoux, secondo, la sua azione non ha nulla a che vedere con il motore di Chris Froome: riesce a malapena a sentire il battito del suo cuore. Di quel momento quasi non ri­corda nulla, si accascia a terra, «morto, completamente vuoto. Ho perso conoscenza», e nel silenzio echeggiano solo i click delle macchine fotografiche. Passati pochi minuti il colombiano reagisce, torna alla vita e comincia a ricordare cosa è successo. Una storia.
L’attacco a dieci chilometri dal traguardo è stato un suicidio: «Ho seguito l’istinto. Ho creduto di potercela fare, mi sentivo bene e ho pensato che su una salita così dura non avrebbero resistito in molti».
Così Nairo mette nel mirino e stacca Mikel Nieve per continuare la sua cor­sa fino alla cima. Dopo pochi minuti, dopo la morte e l’espiazione lassù, dopo lo svenimento e la resurrezione, Nairo comincia a ricordare. Gli torna alla mente quella allegra pedalata alla scoperta del Mont Ven­toux, ricorda le ultime due settimane e mezzo alla scoperta della Grande Boucle mentre il Tour va alla scoperta di Nairo, un corridore che non può che amare. Man mano Nairo realizza che non c’è nemmeno un pino attorno, non c’è alcuna vegetazione. Solo pietre e persone, che meraviglia. Uno stadio di tutti i colori, di tutte le bandiere.
L’arrampicata sta diventando come il Ventoux, calva. Solo quattro uomini inseguono il piccolo colombiano: Richie Por­te, Chris Froome, Alber­to Con­ta­dor e il compagno di squadra Kreuziger che di lì a poco si staccherà. Nairo perde sangue dal naso, lo perde dall’inizio della salita, ma continua, avanza indomito e con lui trascina tutta la Colombia.
Dopo quei secondi critici, il polso e la respirazione tornati alla normalità, a Nairo torna in mente anche una promessa. Quella di Froome: quando gli si avvicina - che bestia con i suoi attacchi senza alzarsi di sella, neanche fosse un animale in calore, violento e arrabbiato - «Questo ragazzo deve vincere la tap­pa» pensa tra sé Froome e lo sussurra, parlando in quel poco di castigliano che il keniano mastica. Gli dice che se gli tiene la ruota gli lascerà la vittoria, è tutta sua, perché lui ha già da mangiare la grande torta gialla in palio per la generale, questa fetta se la merita lui.
Froome ad­di­rittura lo in­co­rag­gia: «Aumen­tia­mo un po’. Ci sia­mo quasi».
Non è vero e Nairo ormai si è staccato. Che sollievo, per Froome. «Se fossimo rimasti in due avrei cercato di aiutarlo un po’, ognuno avrebbe centrato il suo obiettivo» racconta Quintana con l’ultimo respiro a disposizione prima di soccombere.
Quando ritorna nel mondo dei vivi si ricorda di quel dono che non ha potuto accettare. Un giorno sarà in grado di restare con Froome, di arrivare alla vittoria, ma non questa volta, non in questo Tour che lo vedrà secondo. Ma che alla fine, proprio alla fine, lo vedrà anche piangere: ha dovuto aspettare fino alla penultima tappa, per farlo.
Quando sulle rive del bellissimo lago di Annecy, a mezzogiorno - quanto è bello sedersi davanti a un caffé e a una brioche - Eusebio Unzue comincia a parlare di Nairo Quintana, addolcisce la voce. Non può farne a meno, il tecnico navarro che ha visto così tante stelle nascere, costruirsi, crescere sotto la sua ala e di norma andar via. A Eusebio è stato chiesto tra tutti i grandi corridori che ha diretto a quale più assomiglia Nairo Quintana: senza esitazione ha risposto «in quanto a visione di corsa è come Miguel Indurain. Quando arriva al bus al termine della gara è come se aprisse un libro e cominciasse a raccontare tutto».
Ha carattere Nairo, anche se non sembra: non lo intimidiscono nemmeno i belgi alti due metri in gruppo, quelli che accanto a lui sembrano giganti. A qualcuno che voleva strafare ha già tirato una borraccia in testa, qualcun’altro lo ha aspettato al pullman alla fine di una tappa.
«Del timido non ha proprio nulla» ri­pete Eusebio, sorprendendo la platea che lo ascolta sotto il sole cocente di Annecy. «Può dare questa impressione da fuori, ma in squadra vi assicuro che è proprio il contrario, è tra i più burloni».
Il colombiano ha trascorso tutto il suo Tour camminando attraverso quella gabbia che è la zona mista nella parte posteriore del podio premiazioni. Al­dilà delle recinzioni, centinaia di mi­crofoni, videocamere e registratori. Vestito di bianco, immacolato e impassibile, è andato dovunque gli è stato chiesto di andare, non una smorfia o uno sguardo infastidito, al massimo un batter di ciglia, dando a tutti risposte corrette e pacate finché ad Annecy Sem­noz, dove il Tour non era mai arrivato prima, Nairo Quintana ha toccato il cielo con un dito, come mai aveva potuto fare prima. Ed è arrivato ancor più su di quanto sperava. Quel giorno non è riuscito a far altro che entrare in sala stampa, camminare, sedersi, respirare e rendersi conto di aver conquistato l’ultima tappa di montagna, quella inedita, di aver fatto suo il secondo gradino del podio finale e che il giorno successivo sarebbe stato incoronato a Parigi come il miglior scalatore del Tour de France numero 100 oltreché come miglior giovane.
Tutto quello che è riuscito a conquistare in un solo grande giro, in un solo giorno, equivale a quanto ha ottenuto in carriera Lucho Herrera, il più grande ciclista colombiano della storia, una storia che ora mette a disposizione molte pagine in bianco per tutto quello che Nairo è pronto a scrivere.
Quello che più inorgoglisce Nairo, oltre ad essere salito sul secondo gradino del podio nel magico scenario degli Champs Elysées, alla vittoria di tappa e alla maglia bianca, è la maglia a pois. È per questo simbolo, per questa maglia che è scoppiato a piangere. Perché l’ultimo colombiano a indossarlo fu Mauricio Soler: «lui mi ha dato la me­daglia che ho tenuto al collo per l’intero Tour perché mi portasse fortuna, perciò questa vittoria è tutta per lui», ha detto tra le lacrime.
«Da bambino non ho mai sognato così in grande». Ora puoi farlo, Nairo.

di Ainara Hernando, da tuttoBICI di agosto
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