SQUINZI. «Torneremo grandi»

| 04/11/2012 | 09:19
Non l’ha mai negato: «Se la Mapei esiste lo deve al ciclismo». Giorgio Squinzi, 68 anni, numero uno di uno dei colossi chimici per l’edilizia del mon­do, da maggio presidente di Confin­dustria, ci accoglie nel suo ufficio al sesto piano di viale Jenner a Milano con la consueta voglia di parlare dello sport che più ama. Le sue giornate da qualche mese sono davvero ricche e pie­ne zeppe di impegni. «Ho sempre la­­vorato molto, adesso lo faccio ancora di più...», dice sorridente, accogliendoci nel’ufficio che guarda la Madonnina, e nel quale non mancano coppe, trofei e foto del suo Milan, ma soprattutto di ciclismo.
«Il ciclismo ce l’ho nel sangue da sempre, ormai penso che sia risaputo. Papà Rodolfo ha anche corso come indipendente dal 1928 al ’32. In una coppa Ber­nocchi si è anche piazzato, ma capì ben presto che con il ciclismo non avrebbe mangiato e allora accettò l’of­ferta del signor Lattuada, patron della squadra per la quale correva, e si mise a lavorare per la sua azienda di intonaci. Papà è sempre stato veloce di gam­be ma soprattutto di testa, difatti im­parò l’arte e la mise da parte e nel 1937 si mise in proprio fondando di fatto la Mapei, che quest’anno festeggia i suoi primi 75 anni di vita (2 miliardi di euro di fatturato, 7.500 dipendenti, mai un licenziamento. Mapei opera in 29 paesi del mondo, in 5 Continenti, ndr).
Presidente, la prima bicicletta?
«Nel 1986. Esco per andare a comprarne una a Marco, mio figlio che compiva 15 anni. Andiamo ad Affori, zona periferica di Milano, da Walter Baldon e invece di una Detto Pietro ne prendo due, una anche per me. Ora però ho una invidiabile collezione di Colnago, una più bella dell’altra».
Il campione del cuore?
«Fausto Coppi, non c’è dubbio. Ap­pe­na poteva, mio papà mi portava a ve­derlo. Ero anche a Lugano, nel 1953 per il Mondiale del Grande Fausto. Oggi ho una sua bici originale del ’49: è una Bianchi e ha il cambio Simplex che usava soltanto Coppi in quell’esatta stagione. Me l’hanno regalata gli amici della Cascina Solidale Le Vele, una onlus di Pioltello che fa cose bellissime».
Mapei è diventata una leggenda per il mondo del ciclismo.
«Entro per salvare la Eldor di Mar­co Giovannetti. Era il 1993, vigilia della partenza del Giro d’I­ta­lia dall’Isola d’Elba. Mi chiama l’amico Ercole Bal­di­ni e mi dice: c’è da salvare questa squadra. Può essere anche una grande opportunità per la tua azienda. De­ci­do in poche ore. Quello nel ciclismo è sta­to un grandissimo investimento».
Tante le vittorie, quale il corridore Mapei per eccellenza?
«Diciamo tutti, anche se Franco Bal­lerini ha qualcosa di più. È stato il pri­mo corridore che sono andato ad in­gag­giare. E ci avevo visto giusto. Ot­ti­mo corridore, ma soprattutto un grande uomo, di una intelligenza non co­mune».
Tanto amore, ma anche qualche amarezza…
«Come in tutte le storie vere e profonde. Tappa di Monte Sirino al Giro del ’96. Ricordo che Olano perde la bellezza di 1’20”. Allora alla sera chiamo i nostri tecnici per fare il punto ed essere ragguagliato sull’accaduto. Loro mi rispondono candidi: «Abraham sta ma­le, il suo ematocrito è solo 52…”. Ca­pisco tutto. A fine anno chiedo che i corridori non abbiano più al loro fianco il preparatore Michele Ferrari e affido ad Aldo Sassi il compito di ripartire da nuove basi. Uno di quei mattoni sui quali è stata costruita la nuova base della nostra permanenza nel ciclismo e nello sport è il Centro Mapei Sport di Castellanza».
Grande uomo Aldo Sassi…
«Non ci sono parole per dire quanto sia stato grande e bravo. Posso solo di­re che non passa giorno che io non sen­ta la sua mancanza».
La corsa delle corse.
«La Roubaix. La corsa dei cubetti. La corsa Mapei: una vera griffe».
La montagna.
«Lo Stelvio, la montagna di Coppi. È una leggenda per chi ama il ciclismo. Qui si teneva la pedalata sociale della Banca Popolare di Sondrio. Nel 1998 conosco Piero Malazzini, il presidente, perché siamo diventati Cavalieri del La­­voro assieme e sapendo della mia pas­sione per il ciclismo mi invita alla cronoscalata dello Stelvio. Ci sono an­dato più volte con Ballerini e Tafi, e dal 2005 la pedalata è diventata il Mapei Day».
L’emozione dell’inaugurazione delle Olimpiadi di Londra, pensate e dirette dall’acclamato regista britannico di “Trainspotting” e “The Millionaire”, Danny Boyle.
«Uno spettacolo straordinario. Da presidente di Confindustria mi è piaciuto molto anche il fatto che la cerimonia d’apertura sia stata incentrata sulla ri­vendicazione e l’orgoglio dell’Inghil­terra come Paese che ha fatto la rivoluzione industriale nel XVIII secolo, a conferma della centralità del manifatturiero nell’economia reale, contro l’e­splo­sione delle bolle finanziarie. Senza l’economia reale, la finanza da sola non può andare da nessuna parte. Per quanto riguarda invece la corsa, sono rimasto letteralmente sorpreso e rapito dalla partecipazione popolare. Di Olim­piadi nella mia vita ne ho viste davvero tante, come Mapei quella di Londra è stata la decima edizione dei Giochi che noi abbiamo vissuto nei panni di partner della città organizzatrice, e la partecipazione corale di una città, l’entusiasmo vissuto a Londra, forse non ha eguali. Sotto l’aspetto spor­tivo, però, non posso ritenermi al­trettanto entusiasta. Da amante del ci­clismo, la vittoria di Vinokourov mi ha lasciato con l’amaro in bocca. Certo, sul piano tecnico era difficilissimo controllare una corsa così. Con soli 5 corridori (le nazionali top ten, ndr) non è il massimo, ma la vittoria di Vino, che è passato in vicende di doping in maniera molto precisa, secondo me non ha fatto benissimo alla già malandata im­magine del ciclismo. E se poi vogliamo dirla tutta, anche la volata finale con Rigoberto Uran mi ha lasciato molto perplesso: o Uran è di una ingenuità totale o non so che altro pensare».
Quindi a lei non piace l’idea che un atleta, una volta scontata la sua pena, possa avere una seconda possibilità?
«Premetto che Vinokourov, al di là di tutto, è un atleta di notevole caratura. Però, secondo me, il suo non è stato certamente un buon esempio di redenzione. Personalmente penso che Ivan Basso abbia deciso veramente di voltare pagina, si è messo nelle mani del­l’Uci e della sua commissione medica, così come si è comportato con trasparenza con il nostro Centro, pubblicando tutti i suoi dati sensibili sul sito. Ivan ha deciso veramente, con la garanzia e la guida del compianto Aldo Sas­si, di cambiare ed è ripartito nel modo giusto e ha dimostrato che si può fare del buon ciclismo anche da pulito. Non voglio apparire ingenuo, penso che ognuno di noi possa sbagliare, ma nella vita bisogna avere anche la forza - perché di forza si tratta - di ammettere i propri errori, fare atto di pentimento e mettersi nelle condizioni di ricominciare da capo con una nuova mentalità. Ivan e altri come lui l’hanno fatto. Vi­no­kourov, che grande atleta è certamente, non mi risulta abbia mai am­messo le proprie colpe».
Cosa pensa delle nuove disposizioni in­trodotte dal presidente Renato Di Roc­co, che ha stretto ulteriormente le maglie del doping vietando la maglia azzurra a chi ha subìto pene superiori a sei mesi e a chi è solo indagato?
«È una posizione molto dura, sul­la qua­le io tendenzialmente sarei d’ac­cor­do. Certo che nella complessità dei re­golamenti, non tutte le vicende di do­­ping sono ugua­li. Ci sono vicende in cui è giusto tenere una linea così dura, e poi vicende dai contorni molto più imprecisi come quella che ha riguardato ad esempio Franco Pellizotti, e in questo caso è ingiusto forse tenere linee così trancianti. Però se questo può essere un deterrente per avere un ciclismo migliore e più credibile, personalmente appoggio la linea Di Rocco».
Bettini non vince. Zero tituli, per dirla alla Josè Mourinho.
«A Bettini manca un Bettini corridore, questa è la verità. Non dimentichiamoci che il Bettini corridore ha mascherato con la sua classe molte carenze e non ha vinto solo due mondiali e un oro olimpico, ma ne ha fatto vincere un terzo a Varese a Ballan, congelando tutti i favoriti alla propria ruota. Il problema di Bettini è questo. Secon­do me sta facendo un buon lavoro. È chiaro che ci vuole tempo. Ora ha puntato sui giovani, ma bisogna avere pa­zienza. Mo­re­no Moser è un corridore sul quale si può lavorare. Lo stesso di­scorso vale per Diego Ulissi sta crescendo però molto più lentamente di quanto mi potessi aspettare. Al Mon­diale di Valkenburg forse i ragazzi po­tevano essere un pochino più cinici e più accorti. Avrebbero potuto sfruttare meglio il lavoro degli altri, invece nel finale si sono fatti prendere la mano e siamo stati alla fine il miglior alleato di Philippe Gilbert che ha fatto una cosa eccezionale. Da vero campione del mondo».
A Londra non pensa che Bettini avrebbe dovuto puntare fin da subito sui giovani?
«Pinotti era una scelta obbligata, visto che doveva correre anche la cronometro. Nibali è Nibali. Paolini è un corridore di grandissima intelligenza che ha dimostrato che la fiducia di Paolo non è stata mal riposta: sia a Londra che a Valkenburg. Cinque erano, forse mancava solo un Moreno Mo­ser, ma lo stesso Bet­ini ha spiegato con molta chiarezza per quale ragione non l’ha portato. Le scelte le ha dovute fare molto prima che Moreno esplodesse al Polonia».
Le è piaciuto il Tour de France di quest’anno?
«Il Tour è sempre il Tour, anche se quest’anno è stato troppo condizionato dai chilometri contro il tempo. Sky ha fatto in lungo e in largo tutto quello che ha voluto, ma non ha rubato nulla. Certo, di spettacolo se n’è visto davvero pochino. Corsa molto bloccata, molto prevedibile, animata solo da un generosissimo Nibali che ha fatto tutto quello che era nelle sue possibilità. Cosa posso dire d’altro? Forse la strada ha dimostrato che Froome in salita era più forte di Wiggins, e le classifiche pilotate non mi sono mai piaciute…».
Sa che ora qualcuno potrebbe storcere il naso e dire che lei ha ordinato quella della famosa Parigi-Roubaix…
«Mai fatto un ordine d’arrivo, e lei lo sa bene. Non ho mai negato d’aver detto a Lefevere che a quel punto mi sarebbe piaciuto vedere entrare nel velodromo tutti e tre i nostri corridori (Museeuw, Bortolami e Tafi, ndr): poi che vinca il migliore. Lefevere è andato oltre, decidendo di fatto l’ordine d’arrivo».
Cosa le è dispiaciuto?
«Non aver visto un Evans competitivo. Non vi nascondo che confidavo in un suo bis. Cadel ce l’ho da sempre nel cuore. È il volto più pulito del ciclismo, e anche lui è un grande uomo».
Nibali, come tutti i grandi corridori, comincia a dividere gli sportivi: gladiatore per taluni, troppo plateale e prevedibile per altri.
«Un Nibali alla Chiappucci? Non cre­do. Intanto questo è davvero un altro ciclismo e Nibali mi sembra un ottimo corridore, che commette qualche errore di esuberanza come al mondiale di Val­kenburg, ma ha secondo me ancora am­pi margini di miglioramento. Sono convinto che il miglior Nibali non l’ab­bia­mo ancora visto e sono proprio curioso di vedere cosa saprà fare con a fianco un tecnico di spessore come Beppe Marti­nelli».
Potrà vincere un giorno il Tour de France?
«Non ci è molto lontano, ma temo di no. Felicissimo di essere smentito».
Le è piaciuto il Giro d’Italia?
«La corsa rosa, sulla carta, era la corsa più bella di tutte. Purtroppo la tattica adottata da Ivan (Basso, ndr) ha finito per agevolare Ryder Hesjedal, che non smetterà mai di ringraziarlo. Ivan ha sfiancato la sua squadra, portando in giro per la Penisola il resto del plotone. La Garmin non poteva avere miglior al­leato. Corsa troppo controllata, troppo chiusa, monotona come poche. Sì, è ve­ro, si è decisa sullo Stelvio. Alcuni dicono addirittura che si sia decisa solo nel­la crono di Milano, ma sanno perfettamente che non è così: come voi di tuttobiciweb avete scritto per tutto il Giro, è stata la corsa del giorno dopo. Poche emozioni. Tanta prevedibilità. Questa volta però la colpa non è degli organizzatori, ma dei corridori e dei loro team».
Il Giro di Spagna è stato invece uno spettacolo di tre settimane…
«Quest’anno è stato davvero divertente. Infarcito di brevi salite, che forse han­no favorito eccessivamente Joaquin Rodri­guez, ma tutti i giorni assistevamo a tap­pe molto godibili e divertenti. Poi, co­me spesso accade, è il campione, con la sua classe e la sua intelligenza a far saltare il banco. Quando ormai la corsa sembra chiusa e avviata verso un successo di Rodriguez, ecco Contador che s’inventa l’imboscata e mette tutti nel sacco. Bravissimo lui, bravo Riis e la sua squadra che hanno fatto vedere come si può vincere anche quando si pensa di aver ormai perso. Certo, se non fosse an­data bene saremmo qui tutti a dire che Contador è stato un folle, ma tra il successo e la sconfitta spesso il confine è impercettibile. Per questo invito Ni­ba­li a restare se stesso e a farsi guidare dal proprio istinto. Alla Liegi non è sta­to un pollo è stato solo un po’ sfortunato, ma ha fatto una grande cosa: un vero spot per il ciclismo».
Che idea si è fatto di Contador?
«È un corridore certamente di classe su­periore, che nel corso della sua carriera ha anche lui un po’ pasticciato. Se non ricordo male il suo nome è venuto fuori fin dai tempi dell’Operacion Puer­to, ma penso anche che la sua caratura è quella di un fuoriclasse. È chiaro che sapere che atleti di questo livello, che possiedono doti innate, accettino di percorrere delle scorciatoie, mi rattrista molto».
Della vicenda Armstrong che idea si è fatto?
«Una cosa è certa: la favola di Arm­strong non esiste più. Troppe le accuse, troppe le testimonianze scomode e implacabili ad opera di suoi ex compagni di squadra. Contador corre tutto l’anno e vince su tutti i terreni, mentre l’Armstrong del Tour correva solo il Tour. Quello prima della malattia era molto più credibile, quello della rinascita è stato un bluff. Ma nulla c’è di nuo­vo sotto il sole. Io nel ’98 parlai chiaramente a Verbruggen e gli dissi che arrivare nei primi cinque in un Grande Gi­ro senza fare ricorso al doping ematico era pressoché impossibile. Le reazioni dell’ambiente all’epoca furono violente. L’Uci arrivò perfino a minacciare di non farci correre più. Quando nel 2002 de­cidemmo di togliere il disturbo, io dissi sempre a Verbruggen di dare un’oc­chia­tina alla Spagna, perché da lì arrivavano notizie poco rassicuranti: tre anni dopo, scoppiò il caso Fuentes con tutto quel che ne seguì».
Se lei fosse il presidente dell’Uci, una volta letto il faldone dell’Usada, cosa farebbe: toglierebbe dopo tanti anni questi Tour ad Armstrong?
«Moralmente quei Tour Armstrong non li ha già più. Sono Tour costruiti sulla sabbia. Così come non ce l’ha più Riis, per il quale l’Aso non si è degnata nemmeno di mettere al fianco del nome del danese un asterisco recante una scritta: reo confesso. I regolamenti parlano chiaro: dopo otto anni c’è la prescrizione. L’unico Tour non ancora prescritto è l’ultimo, quello del 2005. Ma lo ripeto, Armstrong è già stato giudicato dagli sportivi del ciclismo, dall’opinione pubblica. I suoi accusatori sono una decina di ex compagni di squadra che hanno parlato molto chiaramente. Lui non ha accettato l’onta di essere giudicato da­vanti alle telecamere di mezzo mondo, per non sentire i suoi accusatori sfilare davanti ai giudici americani. Ha spostato tutto sul piano sportivo, dove forse l’Uci non ha margini per fare nulla. Ma il giudizio è inequivocabile».
Anche Johan Museeuw, in un intervista rilasciata a La Gazzetta di Anversa, ha invitato i suoi ex colleghi a confessare il loro uso di doping.
«Ricordo che all’arrivo del Tour del ’96, mi trovai a consolare un Johan Mu­seeuw in lacrime, che ripeteva “io non sono più in grado di tenere le ruote del gruppo”. Io penso che questa sua esternazione sia sostanzialmente finalizzata a giustificare quello che lui ha fatto nella parte finale della carriera. Le perquisizioni che gli hanno fatto a casa e altre problematiche legate alla parte terminale - non felicissima - della sua carriera: il problema è tutto lì».
Che idea si è fatto del ciclismo degli anni Novanta?
«Sicuramente andrebbero riscritte tutte le classifiche e sarebbero tutte pie­ne di asterischi. L’Uci, ad esempio, ha fatto un atto di coraggio, quando ha de­ciso di annullare tutti i record dell’ora fatti in quel periodo, abbassando i limiti di almeno cinque chilometri».
Ma ufficialmente furono cancellati i record con bici fantascientifiche, per favorire i record con bici tradizionali…
«Fu un escamotage, ma la sostanza era mettere un freno ai record dominati dal­la medicina e dalla chimica, non dal­la tecnologia».
Da grande appassionato di ciclismo, og­gi in lei quale sentimento prevale: si sente tradito o vince la passione?
«La passione è tanta e la voglia di ciclismo è intatta. Non vi nego però che, ogni qual volta il nostro sport viene travolto da uno scandalo, a me dispiace maledettamente, ma sono anche abituato a ragionare non solo con il cuore ma con la testa. E allora procedo come ho sempre fatto, fin dall’inizio. A metà del ’93, quando entrai nel mondo del ciclismo, non avevo la più pallida idea di dove fossi finito. Era un mondo a me sconosciuto, ma pian piano mi sono fatto una cultura e una consapevolezza delle cose e attorno al ’96-97 - quando cominciai ad avere le idee più chiare - decisi con il carissimo Aldo Sassi di pro­cedere con la creazione del Centro Mapei Sport di Castellanza. Un centro d’eccellenza sportiva che ci condusse fino al 2002, anno in cui uscimmo dal ciclismo, ma che costituisce ancora oggi la nostra mission nel ciclismo e nello sport. Tornando alla sua domanda, non mi sento né tradito né con la testa tra le nuvole. Guardo, mi appassiono, ma cerco di non farmi travolgere troppo. Questo non è un bene, perché l’amore dovrebbe essere incondizionato. Ecco, il mio è un amore condizionato. E non è bello».
Oggi il Centro Mapei è anche un punto di riferimento importante per l’Uci.
«Con il governo mondiale della bicicletta c’è un ottimo rapporto. Diciamo che la nostra struttura è entrata a far parte di un progetto di recupero ideato e mes­so a punto dall’Uci, per quegli atleti appunto che hanno commesso degli errori in ma­teria di doping, ma dimostrano la vo­lontà di tornare a correre dopo aver fatto un percorso di recupero particolare. Una seconda possibilità bisogna darla ma solo a chi si dimostra cosciente di quello che ha fatto. Per intenderci: a me la storia di Riccò brucia ancora. E la cosa che io non perdonerò mai a questo ragazzo è che non si è preso gioco di me o del Centro Mapei, ma di Aldo Sassi, che in quel determinato momento storico era già gravemente malato».
Come va con il Sassuolo?
«Siamo ripartiti con i giovani e devo dire che il nostro inizio non è stato niente male. Anche in questo caso la delusione è stata tanta. Nel calcio ci sono dei condizionamenti geopolitici (partecipazione di pubblico, la piazza di Genova più appetibile ri­spetto a quella di Sas­suolo, ndr) che non permettono la trasparenza dei ri­sul­tati sportivi. Per questa ragione già da quest’anno ho deciso di ridurre drasticamente (70%) l’in­ve­stimento e sono alla finestra. Il ciclismo ha i suoi problemi, ma il calcio ne ha forse molti di più».
Da milanista si è tolto qualche soddisfazione con la Juventus, con la quale il Centro Mapei ha una collaborazione dall’anno scorso.
«Non esageriamo. Sono contento per gli amici della Juve, ma non mi sono tolto nessuna soddisfazione. Quelle spero di togliermele sempre e solo con il Milan».
Cosa dovrebbe fare Renato Di Rocco?
«Maggior rigore nella lotta al doping  tra i giovani. È lì che bisogna intervenire per estirpare una cultura che va bloccata sul nascere. Non ci si può lamentare della magistratura che ha i suoi tempi e i suoi modi e fa clamore quando interviene nel mondo del professionismo, se si fa troppo poco o quasi niente tra gli Élite e gli Under 23. Quando si fa po­chissimo o quasi niente tra gli juniores, categoria molto delicata e fin troppo esasperata».
A proposito di esasperazione, il nostro presidente quest’anno ha anche introdotto la nuova e discussa regola che vie­ta le premiazioni tra i giovanissimi. Lei, come Mapei, è stato vicinissimo ad Egidio Mainetti, presidente del Co­sta­masnaga, che quest’anno ha organizzato alla perfezione il Meeting dei giovanissimi, cosa ne pensa?
«Forse bisognerebbe educare le famiglie, prima ancora che i ragazzini. Io credo che una medaglia o una coppa non facciano male, purché il risultato non diventi un’ossessio­ne. Gli amici di Costama­snaga, ma per quanto ne so il discorso vale anche per altre realtà impegnate nel ciclismo di base, puntano a organizzare gare che sono delle feste, dove tutti alla fine vengono giustamente premiati. Anche la scuola è una competizione, dove esiste il voto bello e quello brutto: allora cosa facciamo, aboliamo le promozioni e le bocciature? Io sono per una società meritocratica. Non esiste una formula vincente, esiste però il buon senso e questo va usato sempre».
Lei è presidente di Condindustria da maggio: soddisfatto di questi primi me­si da capo degli industriali italiani?
«Più che soddisfatto sono molto preoccupato per l’economia rea­le, ma ce la metterò tutta per portare a casa qualche buon risultato. Per il bene di tutti. Per il bene del nostro Paese. L’unico vero problema è, che a causa dei tanti impegni con i quali mi devo confrontare e quello di uscire un po’ di meno con la mia Col­nago».
Però non ha rinunciato a salire anche quest’anno sullo Stelvio in occasione del tradizionale Mapei Day, con tanti appassionati e il professor Romano Pro­di in testa…
«È stata dura, durissima. Sono arrivato all’appuntamento meno allenato del solito a causa dei tanti impegni, ma ce l’ho fatta. Il professor Prodi invece è stato mol­to bravo. Era in forma Giro, ma per l’allenamento che avevo, mi so­no difeso egregiamente. Come spesso mi capita, ho pedalato più di testa che di gambe. E le confesso che questo è l’esercizio che del ciclismo mi piace di più. Allenarsi alla fatica. Mai mollare. Mai considerarsi battuti in partenza. Al contrario, provarci sempre. Sono regole elementari, lo riconosco, ma tutti do­vreb­bero farvi ricorso. So­prattutto in un momento come questo. Siamo tutti impegnati a pedalare nella stessa direzione e su una strada in salita ma, ognuno con il proprio allenamento e la propria forza può dare il proprio contributo. La squadra Italia è una buona squadra, non è giovanissima come quella di Bettini, ma è tosta e alla fine  possiamo scollinare tutti insieme. L’Italia ce la può fare: bisogna crederci. E pedalare».

di Pier Augusto Stagi
da tuttoBICI di ottobre

Copyright © TBW
COMMENTI
Chi lo sa?
4 novembre 2012 10:11 dany74
Io ricordo una dichiarazione di Squinzi che diceva esattamente il contrario.

Non avendo letto però tutta questa lunga intervista non so se il titolo sia una sintesi di Pier Augusto Stagi o un qualcosa affermato veramente da Squinzi.

Daniele

Se la Mapei esiste lo deve al ciclismo»?
4 novembre 2012 10:22 dany74
Ricordo una intervista a Squinzi che, rispondendo ad una osservazione di Verbruggen, affermava esattamente il contrario.

Purtroppo non riesco più a trovarla in rete.

Daniele

Amore ... condizionato.
4 novembre 2012 10:31 biolino
Condivido tutto.
Per gli stessi motivi, anche il mio è un amore .... condizionato.
Lo guardo sempre con ammirazione, ma tengo a freno gli entusiasmi...
Peccato.
Fabio Seminati di Olginate (LC)

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