LA STORIA. Quinziato&Santaromita, gli angeli di Evans

| 02/10/2011 | 09:23
Il 24 luglio scorso sugli Champs Élysées ad abbracciare Cadel Evans c’erano due nostri connazionali, che tra sorrisi e lacrime hanno condiviso con il leader del Tour de France 2011 la sua vittoria della vita.
Due angeli custodi che, insieme agli altri alfieri della BMC (George Hin­capie, Brent Bookwalter, Marcus Bur­ghar­dt, Amaël Moinard, Steve Mora­bito e Michael Schär), meritano un pezzo della maglia tanto ambita, che l’au­straliano ha vestito a Parigi.
Sia per Manuel Quinziato sia per Ivan Santaromita, la corsa più importante del mondo targata 2011 rimarrà un gioiello da custodire nel proprio palmarès di gregari di lusso.
Questi due ragazzi di casa nostra, me­glio di chiunque altro, possono raccontarci dall’interno l’ultimo Tour e il so­gno giallo che, anche grazie a loro, il capitano della BMC ha realizzato.
Oltre che compagni di squadra del vincitore della Grande Boucle, cosa possiamo dire di voi?
Manuel: «Che ho 31 anni e vivo a Bolzano. Viaggio spesso tra Italia e Spagna perché la mia fidanzata Patricia (conosciuta alla Vuelta a España, ndr) è di Ma­drid. Ho iniziato a correre su strada nell’88 a nove anni, dopo essermi ci­mentato in qualche gara di bmx. La passione per il ciclismo è nata per caso. A differenza di molti miei colleghi, i miei genitori non hanno niente a che fare con il mondo delle due ruote. Pa­pà è appassionato di hockey su ghiaccio e mamma di atletica. En­tram­bi mi hanno spinto a provare diverse discipline per trovare quella che facesse per me. Visto che giravo sempre con una piccola bmx e mi serviva un casco, pa­pà ha deciso di farmi tesserare per il GS Alto Adige: la squadra mi avrebbe fornito tutto l’abbigliamento di cui ave­vo bisogno, casco compreso. Cos’altro aggiungere? Sono a due esami dalla laurea in Giurisprudenza e sono molto appassionato di musica. L’ultimo concerto che sono andato a vedere, in com­pagnia degli amici della Liquigas Daniel Oss e Jacopo Guarnieri, è stato quello di Ben Harper a Verona. Uno spettacolo!».
Ivan: «Ho 27 anni e abito nel varesotto, a Clivio per la precisione, con papà Rino e mamma Rosita. Sono fidanzato con Chiara, mi piace giocare alla play station e ascoltare musica. Pedalo da quando ho cinque anni, corro da quando ne ho nove. Alla prima corsa mi so­no presentato con la maglia bourdeux dell’Uc Arcisate e una bicicletta viola. Non ricordo quanto mi classificai, ma non dimentico che davanti a me c’era stata una caduta e, in qualche mo­do, riuscii a rimanere in piedi. L’amo­re per il ciclismo è di casa, la vo­glia di correre me l’ha trasmessa mio fratello Mauro Antonio, che è stato un buon professionista fino al ’97. È stato gregario di grandi campioni, ma non ha mai vinto il Tour! A parte gli scherzi, mi segue molto e mi dà spesso consigli preziosi».

Dopo il Tour cosa vi siete concessi?
M: «Se ti riferisci a cibi e bevande “proibiti” già dopo l’Alpe d’Huez ci sia­mo permessi qualcosa. Al ritorno da Parigi mi sono rilassato a casa con Pa­tricia, dopo tre settimane “a tutta” un po’ di tranquillità è proprio quello che ci voleva».
I: «Subito dopo la corsa scorreva al­cool a volontà, vino e champagne so­prattutto. Dopo aver festeggiato come si deve quello che desideravo di più era riposare. Anch’io ho trascorso una settimana rilassante in famiglia».

Grandi festeggiamenti a Parigi?
M: «Certo! 300 invitati, tra personaggi del mondo del ciclismo e non, molti arrivati dagli USA, a far festa fino a notte inoltrata. In BMC c’è una bellissima atmosfera, è una formazione giovane che è cresciuta tanto negli ultimi anni e in cui non c’è pressione per il ri­sultato. Per dirigenti e staff è sempre un trionfo quando ognuno di noi dà il massimo per fare bella figura. Basti pensare che la festa per la fine del Tour era già in programma prima del Gran Départ, quindi anche se non avessimo vinto si sarebbe fatta».
I: «Tutto esatto. Forse gli invitati della BMC, dai rivenditori ai boss, erano an­che di più. Dopo la presentazione della squadra abbiamo cenato, assistito a uno spettacolo di magia, ballato e so­prattutto bevuto tanto tanto vino. È sta­to divertente».

Cadel cosa vi ha regalato?
M: «Ha detto a tutti noi che abbiamo preso parte al Tour che a fine stagione possiamo scegliere in qualsiasi posto nel mondo una località per trascorrere le vacanze con le nostre famiglie a sue spese. Non abbiamo ancora deciso, ma sarebbe bello passare qualche giorno tutti assieme, perché no in Australia?».
I: «Manuel ha già spiegato tutto. Un viaggio ovunque vogliamo, per quanto tempo vogliamo e per chi vogliamo. An­che a me piacerebbe andare in Au­stralia, ma se decidiamo di andare dall’altra parte del mondo dobbiamo starci per almeno un mese. La mia fidanzata studia, vedremo se riusciremo a conciliare i nostri impegni per goderci questo bellissimo regalo».

Com’è stato il vostro Tour?
M: «È stata la mia sesta partecipazione. Io e i miei compagni sapevamo dall’inizio dell’anno qual era il nostro compito e siamo arrivati all’appuntamento dell’anno determinati a dare il massimo per Cadel. Sono molto felice di come sia andata e porterò con me per sempre questa esperienza. Sono sempre andato al Tour per lavorare, ma è la prima volta che un mio capitano riesce a vincere. È stata davvero una grande soddisfazione: è come se avessi vinto io in prima persona una corsa».
I: «Beh, è stata la mia prima volta e mi sono reso conto che è vero quello che dicono della corsa più importante del mondo. Mi ha impressionato il pubblico, non ho mai visto così tanta gente, e l’andatura in corsa, in nessun’altra gara si viaggia così».

Qual è stato il momento più difficile per voi?
M: «Personalmente la tappa in cui ho fatto più fatica è stata quella con arrivo su Galibier, quella vinta da Andy Schleck. Faceva molto freddo e abbiamo tenuto tutto il giorno un’andatura folle. Poi, come tutti, ho sofferto nelle salite più impegnative, ma questo è normale».
I: «Io ne ho due. Il primo è il giorno di Plateau de Beille: nell’ultima tappa pi­renaica davvero “non ne avevo”, ero in crisi nera. Il secondo ha come scenario il Colle dell’Agnello: nel giro di qualche chilometro picchio il ginocchio sul manubrio e l’osso sacro sulla sella, al dolore si somma il freddo e sull’Izoard sono costretto a staccarmi. Oltre al do­lore fisico, soffrivo sentendo dalla ra­diolina dell’azione del più giovane de­gli Schleck perché non potevo fare nul­la per aiutare Cadel».

Quello che vi ha emozionato di più?
M: «Ovviamente quando siamo arrivati sui Campi Elisi. È sempre un’emo­zio­ne arrivare a Parigi, ma arrivarci da­vanti a tutti e con a ruota la maglia gialla è qualcosa che non avevo mai provato. Un altro momento che non scorderò mai sarà quando dopo la crono finale Cadel è salito sul bus con la ma­glia gialla. Lì abbiamo realizzato che era fatta».
I: «Vale lo stesso per me. Non scorderò facilmente le lacrime di Cadel quando è salito sul pullman in maglia gialla dopo la sua strepitosa prova contro il tempo di Grenoble, come l’ab­braccio che ci siamo dati dopo aver ta­gliato l’ultimo traguardo».

La giornata più nera per la squadra?
M: «Direi tutta la prima settimana. Il brutto tempo e le cadute ti logorano i nervi. Il mio ruolo consisteva nel lavorare soprattutto in pianura quindi le prime giornate sono state senz’altro quelle in cui ho dovuto prendere più vento in faccia».
I: «Quoto, ma è nella Pinerolo - Ga­li­bier che abbiamo rischiato grosso. Ca­del per fortuna è stato strepitoso».

Quella decisiva?
M: «La vittoria è stata costruita giorno dopo giorno. Non è retorica, ma un da­to di fatto. È la somma degli sforzi quo­tidiani dell’intera squadra. Cadel ha vinto il Tour il giorno in cui ha dato spettacolo Andy: non si è arreso e si è dannato per rimanere aggrappato alla possibilità di vincere. La sua azione è stata commovente».
I: «Decisive sono state la tappa del Ga­libier, in cui io ero letteralmente “al­la deriva”, ma Cadel ha limitato i danni da vero campione, e la crono finale, in cui lui ha dato tutto mentre io ho sofferto con gli altri sul pullman».

Quella perfetta?
M: «Al Mur de Bretagne, quando ha vinto la tappa Cadel. Ognuno di noi ha fatto la sua parte in maniera impeccabile. Tutta la squadra ha avuto un ruolo fondamentale per quel successo parziale, che voleva davvero dire tanto per noi. Abbiamo tirato tutto il giorno a turno fino ai piedi dello strappo finale, poi è stata la volta di Cadel. Quel giorno, come a Parigi, eravamo tutti consapevoli che la vittoria era anche nostra».
I: «Direi la cronosquadre, anche se non l’abbiamo vinta. In realtà credo che come squadra abbiamo disputato un buon Tour per tutte e tre le settimane, ognuno ha fatto quello che gli era stato chiesto e tutto è andato per il meglio. A partire dai primi giorni in cui siamo stati sempre uniti e abbiamo tenuto fuori dai pericoli Cadel alla passerella finale tutti abbiamo dato l’ani­ma».

Cosa non dimenticherete mai di questo Tour?
M: «Sono innumerevoli i bei momenti che abbiamo vissuto, forse quello che mi rimarrà più impresso sarà il mo­mento in cui dalla tv del bus abbiamo seguito col fiato sospeso la crono di Cadel. Quando ha tagliato il traguardo siamo “esplosi”, altro che uno stadio...».
I: «L’ingresso ai Campi Elisi. In tanti mi avevano detto: “vedrai, quando uscirai dal tunnel ti verranno i brividi”, ma non mi aspettavo sarebbe stato così emozionante. Già mi trovavo per la pri­ma volta su quel viale mitico, per di più mi sono ritrovato a percorrerlo in testa... Davvero il massimo! Un’emo­zio­ne, che mi porterò dentro per tutta la vita».

Una fotografia da incorniciare?
M: «L’abbraccio che ci ha uniti al termine della passerella conclusiva. Lì tutti hanno davvero percepito la sinergia che c’è nella nostra squadra. È stata questa la forza in più che ci ha permesso di arrivare al risultato pieno. Cadel è stato indubbiamente il più forte, ma ha potuto contare anche sulla fiducia dell’intera squadra dal primo giorno».
I: «Forse intendi metaforicamente, ma io una foto l’ho già fatta incorniciare. Raffigura due corridori uno dietro l’altro: io davanti e Cadel alla mia ruota in maglia gialla. Dove l’ho appesa? In sala, così la vedono tutti».

Ci raccontate qualcosa in più di Evans?
M: «È una persona speciale: sensibile e umana nella vita di tutti i giorni, spietata e indistruttibile in bici. Come ha dimostrato nella tappa del Galibier non si arrende mai, non cede neanche nei mo­menti più duri. A differenza di al­tri campioni, mi viene in mente Lance Armstrong - più duro anche al di fuori della corsa, forse anche perché hanno alle spalle storie diverse - è davvero alla mano e non pone barriere nei confronti di nessuno. Credo sia proprio la sua umanità a farlo piacere tan­to ai tifosi».
I: «Cadel oltre che il mio capitano è ormai un amico. Abitiamo a quattro chilometri di distanza, usciamo spesso in bici assieme, ma non solo: ci troviamo per due chiacchiere, per un gelato o a cena con le nostre compagne. Mi so­no trovato fin da subito benissimo con lui e non ha mai tradito la fiducia che ho in lui. E poi come parla italiano mi mette troppa allegria!».

Parlando più in generale, come giudicate la vostra stagione 2011?
M: «Non ho avuto molta fortuna. Mi sono ammalato prima e dopo la Tir­re­no-Adriatico, ho dovuto saltare la San­remo e alla Parigi-Roubaix sono caduto a 15 chilometri dall’arrivo quando ero in lizza per un piazzamento. Dopo tante disavventure mi sono concentrato sul Tour, dove ho dimostrato di star bene. Dopo la Vuelta, nella quale ho puntato alle vittorie di tappa e ad affinare la gamba, spero proprio in un bel finale di stagione. Ci terrei molto a correre il campionato del mondo in linea a Copenaghen. Non ho mai avuto l’oc­ca­sione di prendervi parte, ma quest’anno credo di aver dimostrato di essere un uomo squadra importante quindi mi auguro arrivi la convocazione».
I: «Cambiando squadra per me è cambiato praticamente tutto rispetto alla scorsa stagione. Si sente molto la differenza tra un team italiano e uno americano, a partire dalle cose più semplici come la lingua. Per ora capisco l’ingle­se e mi faccio capire, diciamo che mi pento di non averlo studiato benissimo a scuola, ma con la pratica sto migliorando. In questa stagione pure io sono stato un po’ sfortunato: alla Classica Sarda sono caduto e mi hanno rifilato tre punti al mento, alla Parigi-Nizza mi sono ammalato, al Giro dei Paesi Ba­schi e in Belgio ho sofferto per l’al­ler­gia. Al Romandia, sempre al fianco di un Cadel vincente, ho avuto delle buo­ne sensazioni. Al campionato italiano e al Tour sono andato bene. Dalla corsa francese però sono tornato a casa con un fastidiosissimo dolore all’osso sacro e con la varicella, che mi ha impedito di arrivare al top alla Vuelta. Speriamo di finire l’anno con la buona sorte dalla nostra».

Cosa significa per le vostre carriere questo importante risultato di squadra?
M: «Al decimo anno da professionista questa è stata una gran bella soddisfazione. Non sono uno che vince molto, nella massima categoria ho raccolto più rimpianti che soddisfazioni. Ci voleva un risultato del genere, che mi ripaga dei tanti sforzi compiuti e mi dà nuove motivazioni e un po’ di sicurezza in più».
I: «È stato il mio terzo grande Giro, ma il primo Tour, quindi vi lascio im­maginare... L’ultimo giorno mi sembrava davvero di essere in un sogno, non avrei mai detto che una gara potesse regalare un’emozione così forte. Ho disputato due volte la Vuelta, compresa quella vinta da Vincenzo Nibali di cui ero compagno di squadra. Ora mi man­ca solo di provare il Giro».

L’anno prossimo vestirete ancora la ma­glia della BMC?
M:
«Il mio contratto scade alla fine del 2012 e in squadra mi trovo benissimo, quindi direi proprio di sì».
I: «Finché mi tengono, ci rimango più che volentieri (sorride, ndr)».

Vincere il Tour equivale a un sogno realizzato. Uno che ancora dovete realizzare?
M: «Per la stagione che ho fatto la ciliegina sulla torta sarebbe vincere una corsa e guadagnarsi una convocazione al mondiale. A vestire l’az­zurro ci tengo moltissimo».
I: «La maglia della nazionale. Nelle categorie minori non l’ho mai indossata, anche perché correvo per una squadra svizzera e ciò non ha facilitato l’arrivo di una convocazione. Ci spero per i prossimi anni e se nel frattempo arriverà qualche vittoria, l’ac­coglierò molto volentieri».

di Giulia de Maio da tuttoBICI di settembre
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COMMENTI
E, un brava a Giulia De Maio
2 ottobre 2011 11:42 radiocorsa
Con la frenesia dei nostri giorni, quando apri un articolo a volte guardi alla sua lunghezza, e se è, diciamo, non di poche righe, hai qualche perplessità a cominciarlo e salti nella lettura guardando alle domande scegliendo quelle più stuzzicanti. Per gli articoli di Giulia è difficile farlo, già dalle prime battute ti coinvolge e senza accorgerti entri nel pezzo e vai filato, domanda dopo domanda, con sempre maggiore interesse fino alla fine. Anche in queste interviste a domanda singola e risposta multipla ha dato un saggio della sua bravura.
P.s. Come sono lontani i giorni del “ciao mama sono arrivato primo”, oggi i ragazzi che praticano il ciclismo ad un certo livello si esprimono con una ottima proprietà di linguaggio, lontano anche dalle ormai desuete e scontate risposte dei più blasonati calciatori.

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