NIBALI. IL MIO ANNO DA OSCAR

PROFESSIONISTI | 21/12/2014 | 07:00
Vincenzo, ormai sei un habitué degli Oscar: ma dopo aver vin­to un Tour de France provi ancora emozione?
«Il primo, da ragazzino, categoria ju­niores, fu di un’emozione unica. In­dimenticabile. I successivi Oscar, quelli vinti da professionista (quattro, di cui tre consecutivi, ndr) mi inorgogliscono ma hanno tutto un altro sapore. È un premio che ho nel cuore, non perché sto parlando con te, amico da tanti anni, ma perché come sai è il pri­mo grande riconoscimento che ho avu­to da ragazzino e io faccio parte ancora di quelle persone che non si dimenticano di chi si è ricordato di me fin da subito. Questo premio - e non lo dico con retorica - però va diviso con diverse persone, perché ormai io mi avvalgo non solo di una squadra, ma anche di un vero e proprio staff. Que­sto premio è anche per loro».

Un premio da condividere anche con Ra­che­le…
«Con lei condivido tutto, anche questo. Ha una pa­zien­za da Oscar…».

Cosa è cambiato, Vincenzo, da quel 27 lu­glio?
«È cambiato mol­to. Da allora un continuo susseguirsi di eventi a cui non po­tevo dire no».

Hai mai pensato, anche solo per un mo­mento, “quanto mai ho vinto il Tour”?...
«Mai pensato. Certi obiettivi si ottengono con la passione. Non si pensa alle conseguenze che questi risultati possono provocare. Dietro ad ogni cosa c’è il risvolto della medaglia, ma io sono perfettamente consapevole che anche le cene, le premiazioni, le interviste, gli incontri istituzionali fanno parte del gioco. La vita di un atleta non è lunghissima, quindi… Molti pensano che correre in bici sia solo pedalare forte e arrivare per primi. Non è così. È tutto un insieme di cose. Devi stare lontano dalla famiglia, devi sostenere lunghi ri­­tiri e allenamenti massacranti. Quello che ha proposto questo autunno Oleg Tin­koff non aveva senso: 250 mila euro a quei corridori che corrono i tre Gran­di Giri. Certe cose non si fanno per i soldi. I soldi non contano niente. Io sono già appagato e contento di quello che guadagno e se guardassi solo a questo sarei già a posto. La verità è che certi obiettivi li raggiungi solo con la passione. Con la determinazione, la voglia di fare, non certo perché di mettono sul piatto della bilancia 250 mila euro. Forse il signor Tinkoff non lo sa, ma per il Tour io ho lasciato 540 mila euro di premi ai miei compagni di squadra e al personale che con me hanno preso par­te a quel fantastico viaggio verso Pari­gi».

Quando hai vinto a Sheffield, con una spa­rata degna del miglior Saronni di Good­wood, cosa hai pensato? Qui si sban­ca il Tour?
«Allora, andiamo per gradi: quella di Beppe è stata una sparata eccezionale di 400 metri. La mia forse è stata meno potente ma ho dovuto fare più di un chilometro a tutta. Se ho pensato a sbancare il Tour? No, mi sono solo detto: ho solo 2” di vantaggio, ma ora questa maglia la voglio difendere il più possibile, anche con i denti».

La prima riflessione che hai fatto sul lettino dei massaggi, tra le mani di Pal­lini…
«Che nulla sarebbe cambiato. Che Ni­bali stava crescendo ancora un po’. Quella vittoria e quella maglia gialla mi rendevano un atleta ancora più grande, consapevole e mediatico, ma i miei af­fetti e i miei amici sarebbero restati quelli che mi avevano accompagnato fino a quell’ultimo chilometro».

Tu non hai mai avuto il desiderio di re­settare tutto, e rifarti il guardaroba delle amicizie, come molti atleti spesso fanno?

«No. Io sono così e così voglio restare. Molti atleti cambiano amicizie, manager, frequentazioni, posti, luoghi e ca­sa: a me interessa continuare a lavorare circondato da persone che mi conoscono, che sanno cosa mi va e cosa non mi va. Non mi piace essere manipolato e rivoltato come un calzino».

Quando invece hai cominciato a pensare a Parigi concretamente?
«Dalla tappa del pavé della Roubaix. Ricordo che anch’io quel giorno ero nervoso. C’erano state tantissime cadute, sia sul pavé che sull’asfalto. Anch’io avevo avuto qualche problema meccanico, ho preso due buche e mi si era girato il manubrio e poi sul pavé mi si era rigirato ancora: quella giornata è stata molto complicata anche per me».

Un Tour magico: e dire che venivi da un inverno abbastanza difficile…
«Un po’ come adesso, che ho girato a destra e a manca come una trottola. E poi c’era Rachele, che aspettava Emma, e io che ero in agitazione per tutte e due… Non è stato facile. Avvertivo la pressione, credo sia normale. E poi la squadra, che mi chiedeva un segnale».

E poi quella mail di Vinokourov…

«È arrivata, ma a tutti. Ce l’ha inviata il 18 marzo, guarda ce l’ho qua e sei vuoi te la leggo: “Cari colleghi, noi abbiamo cominciato la stagione nel mese di gennaio in Australia, io non mi sono augurato di mettervi pressione dall’inizio dell’anno ma il bilancio ad oggi 18 marzo è troppo debole in rapporto alla qualità della no­stra squadra e all’immagine da difendere dei nostri sponsor. Io mi auguro che gli atleti migliori riescano a nobilitarsi al fi­ne che tutti gli altri lavorino di più per rac­cogliere rapidamente i risultati e i pun­ti World Tour indispensabili alla serenità della squadra. Tutti siamo coscienti che abbiamo già degli obiettivi principali nel 2014, ma non dobbiamo semplicemente far vedere la maglia in qualche corsa, ma soprattutto fare dei podi. Nella classifica mondiale siamo dodicesimi: questo non è all’altezza delle nostre aspettative, quindi io chiedo a tutto lo staff e a tutta la squadra di rimettersi al lavoro al fine che in occasione delle classiche che si correranno a fine settimana voi corriate per fare grandi risultati. Io non voglio in questo momento più sentire nessuna scusa ma vedere belle vittorie. Firmato Alexader Vinokourov”. Ma era una mail inviata a tutta la squadra. Non l’ho mai cancellata. Certe cose non si cancellano».

Ma in Kazakistan che percezione c’è?
«È cambiato molto il percepito verso il ciclismo. L’uso della bicicletta sta crescendo tantissimo, e da quando Alber­to (Contador, ndr) correva all’Astana, ora il ciclismo è uno sport molto più seguito e praticato».

Più duro vincere un Tour o stare in giro per celebrarlo?
«Fisicamente è più duro vincere il Tour, ma a livello mentale è molto più snervante seguire tutto ciò che c’è da fare nel dopo. Rachele, in accordo con Alex e Johnny (Carera, ndr) mi tiene l’agenda. Lei mi fa da filtro e io sono mol­to più tranquillo».

Cosa ti sei regalato e cosa hai regalato ai compagni?
«Io non mi sono fatto ancora niente perché non ho avuto ancora modo di pensarci. Io e Rachele ci stiamo ragionando. Ai miei compagni ho invece regalato dei bracciali tennis con dei diamanti e zaffiri e poi ho lasciato tutto (quasi 600 mila euro, ndr) quello che ab­biamo raccolto di premi al Tour. Il braccialetto di diamanti ce l’abbiamo anche io e Rachele: ce lo siamo regalato dopo la conquista del tricolore».

Ci tenevi tanto al titolo italiano…

«Moltissimo, voi non potete capire. Io a quella maglia ci tenevo davvero tanto. Ma alla fine anche il team, nonostante tutte le polemiche, ha apprezzato questa maglia».

Vinokourov però non si è mostrato felicissimo…
«Non è vero neanche questo. Credimi, Vino non ha mai detto una sola cosa su quel titolo vinto. Lui è sempre stato mol­to carino, calmo e riflessivo».

Ti piace la nuova Astana?
«Abbiamo fatto degli acquisti importanti. Mi spiace molto però non avere al mio fianco un corridore forte e capace come Alessandro De Marchi».

Come sono i rapporti tra te e Valerio Agnoli?
«Buoni. Io e lui ci siamo parlati, ma purtroppo la squadra ha deciso di non tenerlo. A me spiace, perché Valerio è un amico, ma il team fa le sue scelte. Non dimentichiamoci che è pur sempre una formazione kazaka».

Nel 2002 vinci il primo Oscar tut­toBI­CI: eri junior. Cosa ricordi?
«Che mi sono dannato l’anima per ag­giudicarmi quel trofeo. Ci tenevo troppo, ed è stata una lotta fino all’ultimo punto con Mauro Santambrogio (il co­masco tornerà a correre dopo la squalifica di 18 mesi con la maglia della Amore & Vita, ndr). Alla fine vinsi con una trentina di punti di vantaggio, ma è stata davvero una lotta durissima. Guarda, non te lo dico perché siamo amici e sei qui, ma quel primo Oscar è uno dei ricordi più belli che porto nel mio cuore. Gli altri quattro, vinti tutti da professionista (2010, 2012, 2013, 2014), non hanno però quel sapore, non perché non ci tenessi, ma perché quelle vittorie erano la logica conseguenza di stagioni molto buone. Il pri­mo, quello del 2010 è arrivato inaspettato, gli altri sono stati una naturale conseguenza. Mi hanno chiesto: non hai vinto il Velo d’Or ti dispiace? Io ho risposto: perché mai, ho vinto l’Oscar tuttoBICI che vale molto di più».

Parliamo del mondiale di Ponferrada?
«Non era un percorso adatto alle mie caratteristiche e poi non ci sono arrivato benissimo. Però avendo sposato il progetto di Davide (Cassani, ndr), non potevo mancare, non potevo tirarmi indietro. Ero tra i corridori più esperti, ho la maglia tricolore sulle spalle, ho vinto un Tour e quindi era giusto che dessi il mio contributo alla causa azzurra. Però se ti riferisci alla corsa, secondo me siamo andati benino. Colbrelli è stato bravo. De Marchi con un pizzico di fortuna in più poteva davvero andare a medaglia».

Cosa ti preoccupa di più in chiave prossima stagione?
«Sarà molto più difficile allenarsi. De­vo scegliere sempre strade poco battute perché i tifosi vogliono fermarmi, ma se sto facendo un lavoro specifico ov­viamente non posso farlo. E di questo mi scuso fin da ora. Non pensino che me la tiro, devo solo svolgere al meglio il mio lavoro».

Paura di non riuscire a riconfermarti?
«La vittoria del Tour mi ha dato consapevolezza e sicurezza nei miei mezzi. In verità già dopo la vittoria al Giro 2013 mi sono sentito un corridore di­verso, più completo e capace. Certo, con questo non voglio dire che non te­mo la concorrenza, ma penso di essere attrezzato per poter dire la mia anche il prossimo anno».

Chi temi di più?
«Contador e Froome su tutti. Poi Quin­­tana, con il quale in un Grande Gi­ro non mi sono ancora confrontato. Ma nel ristretto lotto dei più forti corridori a tappe del mondo ci metto anche il nostro Fabio (Aru, ndr) e Ri­go­­berto Uran. E poi sono curioso di ve­dere se sapranno ripetersi i giovani francesi come Pinot e Bardet».

A proposito di Aru: c’è una corrente di pensiero che spinge affinché voi due non corriate più per la stessa squadra. Pensano che con una vostra eventuale rivalità ne guadagnerebbe il ciclismo…
«Io penso che il ciclismo e quello italiano in particolare, ne guadagni già adesso. In ogni caso fino alla fine del 2016 saremo compagni di squadra, poi si vedrà».

Nei tuoi discorsi, c’è sempre spazio per la famiglia…
«È la mia forza. La mia tranquillità. Il mio approdo naturale. Io sono legatissimo ai miei genitori e ai miei fratelli. Mia moglie Rachele mi trasmette forza e serenità. E poi c’è la piccola Emma, dieci mesi e un sorriso che dà un’energia in­descrivibile».

Però sul podio di Parigi non ce l’hai portata…
«Non mi piace mostrare i miei affetti».

Ma lo sai che Contador punta a portarsi a casa Giro e Tour?
«Lo so, a me però basterebbe rivincere il Tour…».

Certo che le positività in casa Astana non sono state una bella cosa.
«Lo sai perfettamente come la penso: chi tenta di fare il furbo deve pagare anche multe salatissime. Non si può radiare un corridore? Bene, ti do quattro anni e ti colpisco nel portafoglio. Solo così si può fermare questa piaga».

Tu e Aru fate sognare l’Italia in bicicletta, ma a livello di squadre siamo messi ma­luccio…
«Prima è stato il doping a metterci in ginocchio, ora però è solo una questione economica. La crisi si fa sentire mol­­tissimo, e la pressione fiscale che c’è in Italia non agevola investimenti di un certo tipo. L’Astana ha un budget di circa 20 milioni di euro all’anno, in Italia per una cifra netta equivalente se ne dovrebbero mettere sul piatto in pratica il doppio».

Paolo Slongo, il tuo allenatore, dice che su di te ormai c’è poco da migliorare.
«Ma da perfezionare sì. E visto che io sono un maniaco della perfezione, mi cimenterò in questo».

Ma alle Classiche Monumento proprio non ci pensi?
«La Sanremo, la Liegi e il Lombardia, sono corse che mi piacciono parecchio. Un pensierino ce lo faccio sempre. Ho solo un desiderio: che il Lombardia tor­ni a Como con il San Fermo della Battaglia nel finale. Penso che quel percorso mi si addica parecchio».

Roubaix, Fiandre, neanche a parlarne…
«Roubaix sicuramente no, così come il Fiandre. Tra un paio di anni potrei anche pensarci. Prima però fatemi fare quello che penso di saper fare meglio».

Nei tuoi pensieri c’è anche Rio?
«È una sfida che mi alletta non poco. Ne ho già parlato con Davide Cassani. Richmond e Qatar, i percorsi iridati del 2015 e del 2016, non sono adatti a me… E allora penso molto all’Olim­piade di Rio. Il tracciato dovrebbe es­sere abbastanza duro. Sì, alla medaglia olimpica ci penso tanto e mi piacerebbe davvero poter vincere qualcosa in maglia azzurra. Quest’anno ho toccato davvero il cielo con un dito. È nata Emma, e poi ho vinto il titolo italiano e con la maglia tricolore ho vinto tappe al Tour e mi sono fasciato di giallo: il massimo. Il ciclismo è uno sport di maglie e di colori, e l’azzurro unito al bianco olimpico mi piacciono da paz­zi».

Di cosa vai maggiormente fiero…
«Essere considerato una brava persona. E poi mi piace un sacco il progetto Fondazione per aiutare il ciclismo di base, grazie a sponsor come la Spe­cialized, Nalini e Fsa».

Cosa ti da più fastidio?
«La stupidità di certi miei colleghi che non hanno ancora capito che il ciclismo è cambiato».

Quanto ti mancherà il Giro d’Italia?
«Già mi manca…».

Quanto ti pesa stare lontano da casa?
«Molto, ma è da quando sono ragazzino che sono un nomade. Ora che ci sono Rachele e la piccola Emma, tutto è diventato più difficile. Fortuna che c’è Skype».

Come è Parigi dall’alto?
«Da far girare la testa, da far tremare le gambe: da cuore in gola».

E Verona spiata dal Teatro della Gran Guardia?
«Bellissima, come gran parte del no­stro Paese».

Ci tornerai?
«Forse tra un anno, per fare ancora fe­sta assieme. Se mi chiamate…».

Qui ormai è come casa tua…
«Anche tuttoBICI fa parte un po’ della mia famiglia».

Buon anno Vincenzo.
«Buon Natale e buon anno anche a voi».

Pier Augusto Stagi, da tuttoBICI di dicembre
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