STORIA | 07/12/2017 | 07:05 Quando Alfredo Martini mi condusse nella sua “stanzina in fondo” - una casettina, più che uno sgabuzzino, più che un magazzino, più che un capannino, in fondo al giardino -, ebbi la sensazione di entrare non solo in un altro spazio, ma anche in un altro tempo, in un’altra dimensione. Come se quella porta separasse l’oggi dallo ieri, il presente dal passato, i pronipoti dagli antenati, il Duemila dal Novecento, la cronaca dalla storia, i colori dal bianco e nero o forse addirittura dal seppia.
“La stanzina in fondo” ospitava biciclette, telai, selle, manubri, pompe, sacche per i rifornimenti, fotografie, manifesti, ritagli di giornali rosa ingialliti dalla luce, dall’aria, dagli anni. Ogni pezzo era una storia, ogni pezzo aveva una storia, ogni pezzo era un pezzo della vita di Martini. Forse non c’erano pezzi che vantassero grandi prezzi, anche se la Masi bianca, un gioiello-modello del 1982, la numero 1 delle volumetriche, creatura che sembrava forgiata e plasmata e infine nata non in un’officina ma in un’oreficeria, avrà avuto un valore incalcolabile, incommensurabile, impagabile per quanto potesse essere pagata.
Lì nella “stanzina in fondo” regnava un’aria da santuario, da cappella, da cripta, un’aria religiosa, mistica, spirituale, un’aria che solo i più fortunati e privilegiati degli ospiti potevano respirare, quasi con prudenza, e sempre con rispetto. Martini, quei pezzi della sua vita, li sfiorava, li accarezza, infine li stringeva con una consapevolezza e un affetto che solo chi ha fatto, sa, solo chi ha dato, conosce, solo chi ha pedalato, affida. Tant’è vero che, nel pronunciare “Masi”, Alfredo si illuminava, e il silenzio che ne seguiva era carico di una responsabilità secolare.
Mi è venuto da pensare a Martini e alla sua Masi nell’impugnare, sfogliare e leggere (un po’ come lui sfiorava, accarezzava e stringeva i suoi pezzi di vita) “Biciclette vintage”, la guida alla scelta, al recupero e al restauro scritta da Gianluca Zaghi (Mondadori Electa, 210 pagine, 29 euro). Fin dalla copertina: il colore verde acqua della Bianchi, il manubrio avvolto in un nastro bianco, la guaina dei freni color cuoio firmata Universal, le due borracce di alluminio con il tappo di sughero e la reticella di spago bianco. Perché questo non è soltanto una guida, ma un romanzo d’amore. Perché questo non è soltanto un manuale, ma un libro di storia. Perché questo non è soltanto un vademecum, ma un’opera d’arte. Arte artistica, artigiana, ciclistica.
Zaghi narra di ricerche e ritrovamenti, fissa obiettivi e scelte, spiega l’officina e i suoi attrezzi, approfondisce i restauri conservativo, totale e creativo, analizza ruote, selle e manubri. Oltre alla prefazione di Giancarlo Brocci e all’introduzione di Mike Wolfe, ci sono i contributi di Helio Ascari (“Maestria artigiana e design al servizio della bicicletta”), Stelio Rossi (“Un pezzo di storia del ciclismo nel cuore di Siena”), Wesley Hatakeyama (“La mia passione per il ciclismo dal Chianti alle strade bianche della California”), Greg Softley (“Il grande revival del restauro”) e Aldo Pacini (“Il registro delle bici storiche dell’Eroica”), nonché il testamento spirituale e letterario di Luciano Berruti (“La mia vita all’insegna del ciclismo eroico”).
Non sono il lettore (e probabilmente neppure il recensore) ideale di “Biciclette vintage”. Non so valutare le differenze stilistiche e tecnologiche di un telaio né le innovazioni tecniche e artistiche di un telaista. Mi sembra di conoscere e riconoscere meglio facce e fatiche, salite e tornanti, gregari e pistard, che non tubi obliqui e piantoni. Però, davanti a una Gloria La Garibaldina o a una Colnago Super, senza volerlo, mi commuovo.
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